Crocevia Olanda, il futuro dell’Europa passa (anche) da qui
Come è possibile che il Paese meno bigotto d’Europa sia arrivato a farsi dettare l’agenda da un demagogico prodotto dell’epoca della post-verità?
“Se vinco le elezioni, l’Unione europea sparirà”. Basta questa frase, pronunciata tre giorni prima del voto da Geert Wilders, per comprendere quanto le elezioni olandesi che rinnoveranno la composizione della Tweede Kamer, la Camera bassa del Parlamento, siano diventate un affare di interesse continentale. Mercoledì 15 marzo i cittadini saranno chiamati a decidere chi siederà nei 150 seggi a disposizione. In corsa ci sono ben 28 partiti e mai come oggi la frammentazione politica la fa da padrona.
La grande partita, però, è quella che il leader populista Wilders sta giocando contro i partiti tradizionali, contro l’establishment e contro l’Unione Europea. Con una comunicazione violenta e provocatoria, il capo del Partito per la Libertà (PVV) era stato indicato nei mesi scorsi come vincitore designato di queste elezioni. La retorica anti-Islam e anti-immigrazione ha intercettato le inquietudini della gente davanti alla globalizzazione, le (poche) conseguenze della crisi economica globale e la (tanta) disillusione verso le istituzioni. Un mix ormai noto, un format internazionale che sta dando i suoi frutti, non solo nel Vecchio Continente.
Nelle ultime settimane, però, sembra che le cose stiano cambiando. L’annunciata indisponibilità delle altre forze politiche ad appoggiare un eventuale governo Wilders, ha fatto perdere gradualmente consenso nei confronti del PVV e quasi tutti i sondaggi danno ora in testa l’attuale premier, il liberale Mark Rutte, e il suo VDD.
Ma la situazione è estremamente fluida: secondo i sondaggisti, i risultati delle elezioni confermeranno il trend europeo della frammentazione politica, favorito dal sistema elettorale proporzionale e che rende sempre più complessa la formazione di governi stabili. Nessuna formazione dovrebbe ottenere più del 20% dei voti, ma Rutte sarebbe leggermente in testa grazie a una campagna elettorale capillare che è arrivata a tutte le fasce di cittadini. Ma il VVD sale e scende allo stesso tempo: dovrebbe ottenere 26 seggi, in netto calo rispetto ai 43 di adesso.
Poco dietro, si dovrebbe comunque affermare come seconda forza proprio il partito populista che vedrebbe crescere il suo peso politico in Parlamento. Anche se non dovesse vincere le elezioni, Wilders ha già ottenuto il grande risultato di spostare clamorosamente verso destra il dibattito generale, a cominciare proprio dal suo avversario Rutte che qualche settimana fa ha comprato una pagina del più importante quotidiano olandese per fare propaganda indentitaria.
Ma come è possibile che un Paese fondatore dell’Unione Europea, storicamente cosmopolita, aperto e globalizzato, economicamente prospero e finanziariamente solido, il Paese delle biciclette, dei mulini a vento, dei tulipani, il Paese meno bigotto d’Europa sia arrivato a farsi dettare l’agenda da un demagogico prodotto dell’epoca della post-verità?
Wilders è un politico di lungo corso, non un outsider alla Grillo e neppure un imprenditore alla Trump. Ha già fatto parte di una coalizione di governo all’inizio degli anni 2000. Il suo discorso si è via via radicalizzato. Più si mostra politicamente scorretto più diventa famoso grazie ai rimbalzi “virali” sui social network. Allora eccolo declamare che “non è un problema di criminalità, ma un problema di marocchini”. Oppure chiedere di “liberare il Paese dalla feccia islamica” o di “chiudere tutte le moschee” o ancora paragonare il Corano al Mein Kampf.
Eppure dal 2015 il numero dei richiedenti asilo in Olanda è diminuito della metà grazie all’accordo con la Turchia (con cui oggi i rapporti sono ai minimi storici) e alla chiusura della via dei Balcani. Questo suggerisce che la retorica anti-immigrazione non è solamente legata alla crisi corrente, ma ad un generale timore che il sistema di welfare olandese non possa reggere la presenza di immigrati provenienti sia da paesi extra-europei che da alcuni paesi membri.
Questa teoria è supportata dal fatto che ad oggi, su una popolazione di circa 17 milioni, il numero di persone provenienti da altri Paesi è di 3,8 milioni, di cui solo la metà non è costituita da cittadini europei. In questo frangente, così come in altri stati membri, più che la crisi migratoria, è stata proprio la globalizzazione ad avere favorito lo sviluppo di tendenze refrattarie all’apertura, che supportano forme di nazionalismo su cui il PVV, ma non solo, ha costruito la propria campagna elettorale.
Le elezioni di mercoledì saranno comunque un crocevia fondamentale per l’Olanda e per l’Europa che comincia così il grande ballo elettorale che in un anno vedrà andare al voto i cittadini francesi, tedeschi e italiani, ossia l’architrave economica e demografica dell’Unione.
Il capo fila del nuovo ipotetico governo dovrebbe restare il VDD di Rutte forte dei sui successi macro economici. In caduta libera sono dati i laburisti del Pvda. La vera rivelazione delle elezioni potrebbe essere tuttavia Jesse Klaver, leader di successo del partito dei Verdi di sinistra (GroenLinks). Il trentenne, già considerato dalla stampa olandese in vincitore morale, è l’unico volto nuovo ed è riuscito ad attrarre un seguito mai visto dai Verdi: qualche giorno fa è riuscito a riempire un’arena da 6mila posti ad Amsterdam per un incontro con elettori e simpatizzanti. Secondo i sondaggi, Klaver potrebbe riuscire addirittura a quadruplicare i 4 seggi in Parlamento, portandoli a 17. Le sue idee sono di sinistra venata dai principi liberali – lotta senza quartiere all’evasione, stop ai bonus, redistribuzione dei migranti in Europa, eurobond, riduzione obbligatoria dei gas serra – e il suo obiettivo è formare un governo senza Rutte e senza Wilders.
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