Il lutto è finito: Renzi torna Renzi
Non è cambiato niente in questi tre giorni: ma adesso il Pd è in campo, e la partita è appena cominciata.
La notizia è una sola, ed è più che sufficiente sia per stordire gli osservatori e gli editorialisti, ossessivamente impegnati a guardare il dito fino allo sfinimento (loro, nostro, di tutti), sia per rinvigorire e insieme tranquillizzare un popolo fino a ieri stordito che ricomincia, finalmente, a vedere la luna. E la notizia è che il lutto è finito, la sconfitta referendaria è consegnata alla storia, un grande partito democratico (l’unico?) è in campo e il suo leader è pronto a guidare una comunità di donne e uomini liberi, ciascuno con la propria storia e la propria testa e la propria sensibilità.
“Nelle scorse settimane – esordisce così Matteo Renzi nel discorso conclusivo dell’assemblea del Lingotto – qualcuno ha cercato di distruggere il Pd perché c’è stato un momento di debolezza innanzitutto mia. Ma non si sono accorti – aggiunge fra gli applausi – che c’è una solidità e una forza che esprime la comunità del Pd, indipendentemente dalla leadership: si mettano il cuore in pace, c’era prima e ci sarà dopo di noi e ora cammina con noi”.
La “comunità”, dunque: cioè il partito. Che è anche una cosa un pochino noiosa, fatta di discussioni e di documenti, di proposte e di obiezioni, di fatica e di impegno, di riunioni notturne e di mediazioni. Di personalità e di culture politche diverse. Di ingenuità e di generosità, di pessimismo della ragione – al Lingotto s’è affacciato anche Gramsci – e di ottimismo della volontà.
“Non vogliamo un partito di correnti e di caminetti – sono ancora parole di Renzi –. C’è bisogno di più leader, non di meno leader. Quello senza leadership è un modello culturale sbagliato. Abbiamo bisogno di idee, specialmente dei quarantenni. C’è una generazione nuova, piena di valori, che non siamo riusciti a conquistare. Mettiamoli alla prova. Ascoltiamoli. Ci rottameranno? Pazienza!”. E, accanto ai millenials, ci sono i meno giovani: “Sono il nostro riferimento più forte a livello elettorale e abbiamo bisogno di loro. Reinnamorarsi della politica anche quando si ha una certa età è una cosa bella”.
Attenzione, però: il Lingotto non è stato soltato un appuntamento sentimentale, un ritrovarsi fra compagni di viaggio, e persino un risveglio catartico dopo la lunga apnea di questi mesi: la dimensione sentimentale del Lingotto è essenziale, perché una comunità politica non si regge soltanto sui programmi o sui disegni di legge o sugli statuti; ma nelle conclusioni di Renzi c’è anche una robusta proposta politica per il futuro del Paese.
E questa proposta è: l’ondata possente della rabbia, che pure ha molte ragioni, può essere fermata e può rifluire se il cammino delle riforme non si spezza ma, al contrario, faticosamente riprende la sua strada. La giustizia sociale, la crescita e lo sviluppo, la modernizzazione del Paese, l’ascolto per i più deboli e la promozione del merito sono altrettanti tasselli di una visione che scommette sulla ragionevolezza e sul buonsenso, sulla capacità di comprendere e reagire, sulla testarda volontà di provare a rimettere a posto le cose.
“Siamo eredi – scandisce Renzi – non reduci: lo diciamo a chi pensa che salire su un palco, alzare il pugno chiuso e cantare ‘Bandiera rossa’ aiuti i più deboli”. No, non vengono dal passato le ricette per medicare il futuro: la difficile modernità che stiamo attraversando (che ci sta attraversando) richiede più coraggio e più determinazione e anche – paradossalmente ma non troppo – più domande e più dubbi.
È su questo sentiero impervio, con il vento contrario dell’antipolitica che soffia impetuoso, che Renzi ha collocato se stesso e il partito che vuole tornare a dirigere il 30 aprile prossimo, in quella virtuosa dialettica fra “noi” e “io” che è l’architrave di ogni comunità umana e che al Lingotto ha trovato una rappresentazione di sé a tratti persino sorprendente.
Non è cambiato niente in questi tre giorni: ma adesso il Pd è in campo, e la partita è appena cominciata.
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