lunedì 23 gennaio 2017

Dell’ideologia trumpiana e del perché Grillo la segue

Usa
donald-trump
Un’analisi del populismo secondo il nuovo presidente americano
 
Il discorso inaugurale di Trump – discorso assai più politico che istituzionale – può benissimo assurgere a paradigma di narrazione populista pura (sia detto nell’accezione più avalutativa e “scientifica” del termine): la semplificazione della complessità del reale nella dicotomia fra popolo ed élite, e cioè la vittimizzazione e l’esaltazione acritica del primo a discapito della demonizzazione delle seconde, è l’essenza stessa del populismo.
Eppure, com’è ovvio, il “popolo” non è un’entità unitaria dalla volontà perciò stesso univoca e – quel che più rileva – l’esercizio effettivo del potere, in una democrazia liberale, presuppone ipso facto l’esistenza di un’élite. A ben vedere, non solo l’esecutivo trumpiano – come qualunque altro esecutivo – è strutturalmente elitario, ma i ministri nominati provengono essi stessi da altre élite (industriali, finanziarie): la semplificazione e il dilettantismo, infatti, caratterizzano esclusivamente la prima fase della parabola di qualunque forza populista; in un secondo momento, conquistati gli scranni del potere, essa si trasfigura paradossalmente nel suo opposto, e cioè in una sorta di aristocrazia tecnocratica (una cosa molto simile, in miniatura locale, si è verificata a Roma: Virginia Raggi si è circondata perlopiù di alti burocrati).
In un primo momento la competenza viene squalificata come alibi usato dalla classe dirigente per estromettere “il popolo” dalle centrali operative del potere, poi viene de facto assolutizzata quale requisito necessario e sufficiente per potervi accedere.
Come qualunque forma di populismo, poi, anche quello trumpiano vanta delle specificità nazionali: il “popolo” cui fa riferimento, ad esempio, non è inteso nella sua interezza quantitativa – e sarebbe un bel paradosso, visto che la sua elezione è viziata da un deficit di “legittimazione popolare”: la Clinton ha preso oltre due milioni di voti in più – quanto piuttosto in alcune peculiarità “qualitative” (quali, fra le altre, quella cetuale e quella etnico-religiosa: il suprematismo bianco è un elemento costitutivo del populismo trumpiano, così come gli ammiccamenti a una middle class compressa, dal basso, da un apparato assistenziale dal quale è esclusa e, dall’alto, dalla concorrenza spietata delle multinazionali).
Il tycoon ha saputo dunque alimentare e capitalizzare un sentimento di ostilità all’establishment politico che era assai improbabile – se non pressoché impossibile – che insorgesse proprio negli Usa, se non altro perché è assai improbabile che vi si possa sedimentare un “establishment”, per com’è strutturata l’architettura istituzionale americana: la “stagnazione” politico-istituzionale, in genere, trova il suo habitat nei sistemi multipolari e consociativi (proprio quello che Grillo ha certificato di volere per l’Italia, con la conservazione del bicameralismo paritario e il ritorno al proporzionale puro), non in quelli bipartitici dotati, per di più, di un efficiente meccanismo di spoil system.
Ma diverse circostanze fortuite – anche se non inedite – hanno fatto sì che una significativa porzione della società civile statunitense percepisse di non avere più voce in capitolo, a tutto vantaggio di un manipolo di usurpatori cinici e autoreferenziali: se la constituency repubblicana ha scelto un outsider proprio perché gli altri candidati – inclusi Ted Cruz e Marco Rubio, i più presidenziabili – venivano dal “sistema”, quella democratica ha scelto la continuità sostanziale con l’amministrazione Obama (dopo otto anni!) facendo guadagnare la nomination proprio al suo Segretario di Stato, nonché una continuità più generalmente “famigliare” (un altro Clinton avrebbe istituzionalizzato l’ennesima dinastia democratica americana).
Così Trump ha avuto gioco facile ad accreditarsi quale homo novus che avrebbe trasferito il potere «da Washington DC (…) a voi, il popolo».
Questo è l’ormai arcinoto passaggio-chiave dell’intero discorso inaugurale: Trump cita, a sua insaputa, Bane, uno degli antagonisti di Batman nella trilogia del Cavaliere Oscuro.
Stando al manicheismo tipico della narrazione populista, esattamente come “i buoni” anche “i cattivi”, nella storia e nella cinematografia, si presentano quali interpreti degli interessi e delle istanze del popolo oppresso; ma è il popolo stesso a trasferire loro il potere sostenendoli (e, nella peggiore delle ipotesi, divinizzandoli), non il contrario.
Non è un caso che Grillo, colui che ha pressoché monopolizzato il feudo del populismo in Italia, abbia benedetto la formazione del nuovo asse Trump-Putin esplicitando di guardare con favore gli “uomini forti”: chi astrae e assolutizza la volontà del popolo – o della “gente”, come oggi si dice in Italia – altro non fa che rivelare le proprie simpatie per i sistemi assolutistici e gli uomini soli al comando (e pensare che sino a qualche mese fa Grillo sponsorizzava il No a una riforma che avrebbe blandamente stabilizzato l’esecutivo paventando la deriva autoritaria!).
Ciò detto, l’enfasi allarmista di queste ore, unitamente ad alcune comparazioni inopportune – immancabile l’inflazionatissima equiparazione a Hitler – si sta rivelando smodata e preventiva. Il populismo inteso come forma espressiva e comunicativa, fra l’altro, ha contagiato anche leader e partiti non-populisti (è un effetto collaterale della mediatizzazione della politica): non è improbabile che Trump, dietro le pressioni dello stesso partito che ha strumentalizzato per la propria ascesa politica e più generalmente dei “contropoteri” che agiscono nel sistema americano, non è improbabile che si “normalizzi” e smussi le posizioni più radicali assunte in campagna elettorale.
Tuttavia, a dispetto di qualunque minimizzazione, sembra che anche nel Presidente Trump (e cioè non solo nel candidato) continuino ad agitarsi pulsioni populiste e illiberali: la “liquidità” della sua agenda di governo e le sue antipatie – per usare un eufemismo – per la stampa e per le minoranze etniche sono solo alcuni dei sintomi più evidenti.
Agli americani non resta che tenere la guardia alta, pur senza eccessi “controdemocratici”: le mobilitazioni di piazza e il tiro a bersaglio, se dosati male, finiscono per fortificare “il bersaglio” anziché indebolirlo.
Alle forze politiche italiane ed europee, invece, spetta il compito di ridimensionare e marginalizzare gli emuli del trumpismo (e cioè, in Italia, i pentastellati più che i leghisti: se i secondi sono un fenomeno poco meno che minoritario, sono i primi a rappresentare la vera e propria destra illiberale italiana e a vantare i numeri per aspirare a conquistare la maggioranza relativa degli elettori. Chissà che prima o poi non lo capiscano anche gli autorevoli esponenti della sinistra antirenziana).

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