Stipendi d’oro Cisl, la “casta” sindacale allo scoperto
di Andrea Martini
Lo scandalo sugli “stipendi d’oro” dei dirigenti della Cisl in realtà non fa che confermare quanto già emerso un po’ più di un anno fa riguardo alla superpaga autoattribuitasi da Raffaele Bonanni, ex segretario generale della Cisl, protagonista ultimo e più accanito della definitiva svolta “complice” della Cisl.
Le denunce di un ex dirigente della Cisl veronese, Fausto Scandola, hanno portato alla luce il fatto che non è stato solo Bonanni a ricevere uno stipendio da nababbo (fino a 336.000 euro ogni anno), ma che la cosa si estende (perlomeno) a parecchi altri dirigenti, tutti con retribuzioni che vanno oltre i 200.000 euro l’anno. Tra questi è compresa, ovviamente, anche Annamaria Furlan, la nuova segretaria che ha sostituito Bonanni, tra l’altro con il preciso compito di reimbiancare l’immagine della Confederazione cattolica.
Lo scandalo si aggrava, se si pensa che queste retribuzioni non solo sono vergognose in sé, ma riverberano i loro effetti anche sui trattamenti pensionistici che costoro percepiranno (Bonanni lo percepisce già) quando andranno in pensione.
Si tratta di cifre non contestabili dato che sono ricavate dalle denunce dei redditi e, dunque, occorre notare, non contemplano tutti i benefit non tassabili, come appartamenti in comodato, telefoni “aziendali”, rimborsi forfettari, buoni pasto, auto “blu”, buoni benzina, ecc. che, per dirigenti di quel livello possono superare la cifra di parecchie migliaia di euro al mese per ciascuno.
E’ grottesco quanto ancora appare su varie pagine del sito della Cisl (ne linkiamo una) circa la legge di iniziativa popolare, consegnata al parlamento alla fine del 2013, per la limitazione delle retribuzioni dei manager pubblici e privati. Bonanni, Furlan, e i loro compari percepiscono o percepivano retribuzioni che paradossalmente dovrebbero cadere sotto la mannaia del meccanismo previsto dal progetto di legge targato Cisl.
E non citiamo le ripetute invettive di Bonanni contro le pensioni d’oro, prima che lui stesso, pensionandosi, venisse a percepire una pensione di 5.400 euro netti mensili (che peraltro si sommano agli emolumenti sottobanco che il sindacalista avrà sicuramente contrattato con la sua Cisl al momento del passaggio di mano).
Queste somme risultano ancora più vergognose se messe a confronto con le retribuzioni e le pensioni miserevoli che percepiscono milioni di lavoratrici e di lavoratori italiani anche grazie ai contratti e alle riforme previdenziali che la Cisl ha firmato (con Cgil e Uil). E costituiscono un vero e proprio ladrocinio, visto che, per pagarsi, costoro attingono ai soldi che lavoratrici e lavoratori, pensionate e pensionati versano mensilmente al sindacato allo scopo di tutelare le proprie condizioni economiche.
E non dimentichiamo che i segretari “generali” della Cisl (ma anche degli altri grandi apparati sindacali) hanno, relativamente alle loro strutture un potere che fa impallidire quello dei manager di azienda che comunque devono rendere conto agli azionisti e, soprattutto, ai consigli di amministrazione. Le retribuzioni dei segretari generali possono essere aumentate (nel caso di Bonanni si dovrebbe dire moltiplicate) con una semplice “delibera di segreteria”, cioè con un atto (sostanzialmente segreto) dell’organismo esecutivo della struttura sindacale, cioè varato da una riunione di dirigenti il cui ruolo dipende totalmente dal gradimento del “generale”.
Un fatto analogo si è prodotto anni fa anche nella Cgil, quando la segreteria deliberò l’aumento dello stipendio di Epifani (allora segretario generale della Confederazione di Corso d’Italia), al fine tra l’altro di incrementare sensibilmente il suo trattamento previdenziale al momento dell’imminente pensionamento. Il meccanismo nella Cgil è analogo a quello della Cisl, anche se la realtà delle retribuzioni è parecchio più contenuta (le retribuzioni, al netto dei benefit “fuori busta” però, non dovrebbero superare i 75-80.000 euro l’anno, un po’ più di 4.000 euro netti mensili).
Confrontando i bilanci 2014 dei centri nazionali di Cisl e Cgil (cioè solo dei palazzi di Corso d’Italia e di via Po, e dandone per buone le cifre in essi contenute) il volume di spesa è analogo: Cisl 23 milioni e mezzo e Cgil 24 milioni, ma la quota delle spese per il personale della Cisl (10 milioni e mezzo è nettamente superiore a quella della Cgil: meno di 7 milioni. In più occorre tenere conto che la Cgil deve “spalmare” le sue spese per il personale su un numero di funzionari che (a livello nazionale) sono oltre 15.000, più del doppio di quelli Cisl (meno di 7.000).
Ma, giustamente, l’opinione pubblica percepisce il mondo sindacale come un tutt’uno e spesso non coglie le “differenze di stile” tra le varie sigle. Per di più il silenzio assordante dei vertici Cgil (e Uil) di fronte a quanto denunciato e confermato riguardo ai loro “partner” cislini mostra un imbarazzo vischioso che trascinerà anche le altre due confederazioni in questa nuova “bonannopoli” che si sta delineando. Il fatto che (al momento) non emergano fatti “penalmente rilevanti” non toglie nulla allo scandalo morale che queste notizie suscitano.
Ma non si tratta solo di un fatto morale. Le retribuzioni disvelano il carattere del tutto falso ed ipocrita di un sindacato che si autodefinisce strumento di difesa del mondo del lavoro. Gli apparati sindacali, con queste notizie, appaiono per quello che sono: strutture di potere e di promozione personale di un ceto che ormai non ha più nulla a che vedere con la classe lavoratrice, con le sue sofferenze e le sue lotte.
Come può un dirigente che “naviga” sui 200.000 euro comprendere e fare proprie le ragioni di chi vive e mantiene una famiglia con non più di mille euro al mese? L’esplodere delle retribuzioni dei dirigenti sindacali è l’altra faccia della medaglia della complicità con cui la Cisl (ma anche Cgil e Uil) ha accompagnato l’aggressione padronale alle condizioni di vita di milioni di lavoratori. Si tratta di un modello organizzativo e politico che è sempre più lontano dalle funzioni che un sindacato dovrebbe avere.
E tutto ciò non può non riportare alla mente i numerosi casi di sindacalisti che, senza neanche il buon gusto di un periodo di “riposo sabbatico”, passano dal ruolo di dirigenti sindacali a quello di manager aziendali. Particolarmente scandaloso è il caso dell’ex Cgil Mauro Moretti che, già segretario nazionale della Cgil Trasporti, torna all’improvviso nelle Ferrovie dello stato (nelle quali nel frattempo era stato promosso da Capo-officina ad alto dirigente) per diventarne infine Amministratore delegato. Per poi essere promosso ad AD di Finmeccanica al suono di 2,3 milioni annui di retribuzione.
Il pioniere di questa pratica fu Gastone Sclavi, dirigente dei chimici della Cgil, che negli anni 70 divenne dirigente della Montedison. Ma tanti sono stati successivamente i suoi imitatori. E se allora questi episodi suscitavano scalpore e si attiravano l’accusa di tradimento, oggi appaiono del tutto fisiologici. Perché?. Perché il sindacato è cambiato e i suoi vertici hanno assunto tra l’altro la funzione di gestione della manodopera nell’ambito di “compatibilità” aziendali e di sistema sempre più ristrette. E se si deve gestire la manodopera questo si può fare da sindacalista complice, ma ancora meglio da capo del personale o da manager.
E questi ex sindacalisti hanno gestito la manodopera spesso nel modo più brutale, proprio nella fase della svolta liberista della classe dominante a cui hanno aderito con entusiasmo.. Il caso Moretti è esemplare, visto che ha amministrato le Ferrovie dello stato proprio nel periodo della loro privatizzazione, gestendone la ristrutturazione, le esternalizzazioni, gli spacchettamenti, la decimazione del personale.
Il momento agostano aiuta a dare minore risonanza a quanto è affiorato, ma l’autunno (peraltro segnato dallo svolgimento delle conferenze d’organizzazione della Cgil e della Cisl) vedrà con molta probabilità il riesplodere fragoroso della crisi degli apparati burocratici sindacali.
L’offensiva contro la “casta” sindacale porterà altra acqua al mulino della campagna di Renzi (e con lui della Confindustria) per la cancellazione non degli apparati ma della stessa azione sindacale e di ogni idea di conflitto nei luoghi di lavoro (non a caso si preparano anche nuove leggi antisciopero).
Ma deve costituire anche lo spunto per accelerare la riflessione e l’azione per una nuovo sindacalismo di classe e conflittuale.
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