sabato 22 agosto 2015

E cosa dovevano fare i nostri giovani migliori fermarsi in Italia per fare i portaborse?

Dopo il danno, la beffa. «Adesso chi emigra viene anche criticato»

Luca Palazzotto vive a Washington. «I giovani che partono vengono accusati di aver rinunciato a cambiare le cose. Ma perché dovremmo sacrificarci?»
Frederik Ranninger/Flickr

Frederik Ranninger/Flickr

   
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«Quando investi nella tua formazione, a volte certe scelte sono obbligate. Che senso ha chiedere ai giovani di sacrificarsi, restare in Italia, accettare compromessi, perdere opportunità in nome di uno sviluppo che non dipende da loro?». Luca Palazzotto, 39 anni, una vita costruita da due a Washington DC, storce il naso di fronte alla «propaganda politica» che inizia a circolare per la Penisola. Quella che interpella gli expat. Dopo essersene andati da un’Italia «poco competitiva» e incapace di offrire ciò che cercano, ora vengono «biasimati» per aver mollato, per non essere rimasti a lottare e cambiare le cose in meglio.
Luca non è il solo ad essere infastidito da questa polemica. Per lui, come per altri che hanno preso la sua stessa decisione, rimanere in Italia non solo non aiuterebbe i singoli a raggiungere i propri obiettivi. Ma non cambierebbe nemmeno in meglio il paese.
«Ora i giovani che emigrano vengono criticati per aver mollato, per non essere rimasti a lottare e cambiare le cose in meglio»
«La volontà dei giovani è da sempre quella di investire su se stessi e di crescere. Quando scegliamo il nostro percorso di studi e quello professionale, lo facciamo per motivazioni personali, non per cambiare l’Italia. Non tutti hanno volontà politica», afferma Luca, facendo riferimento all’articolo pubblicato pochi giorni fa su questo giornale, in cui un assessore ventinovenne del Comune di Udine chiedeva ai coetanei di fare «massa critica» insieme, restare in Italia e trovare il modo di cambiare le cose. «Altrimenti io qui resto solo a lottare contro i garantiti», diceva Gabriele Giacomini.
«Non è detto che funzioni, non è detto che possa fare la differenza», controbatte Palazzotto, che ha soluzioni alternative da proporre. «È ovvio che tutti noi speriamo di trovare le opportunità professionali che cerchiamo, in Italia. Ma se questo non avviene io non direi mai a un giovane di castrare i suoi ideali in nome di un altro ideale, politico, che magari non si realizzerà».
«Un giovane che non trova realizzazione rischia di diventare elemento negativo per il paese, frustrato, depresso»
E c’è dell’altro. E questo altro è sotto gli occhi di tutti. Soprattutto sotto gli occhi di chi i giovani italiani del 2015, prima di giudicarli, li osserva. Mentre lavorano, studiano, incontrano gli amici. «Un giovane che non trova realizzazione rischia di diventare elemento negativo, frustrato. Avere più difficoltà del necessario a trovare sbocchi personali porta ad avere un’attitudine negativa verso il sistema. Pochi reagiscono dicendo: lo cambio. Piuttosto, si genera disfattismo politico, poco rispetto delle regole. Depressione. Se le regole ti opprimono, non le vuoi rispettare. Lo fai solo perché sei obbligato, senza vera motivazione. Tutto questo non ti rende elemento positivo di sviluppo. Vivi il paese come una costrizione, non un’opportunità».
«Dobbiamo evitare di semplificare la situazione dividendo tra buoni e cattivi, chi resta e chi parte. Non si deve necessariamente idolatrare chi se ne va. Né necessariamente biasimarlo. Serve rispetto per la legittimità delle scelte individuali ed evitare l’attacco politico su chi va all’estero per avere una carriera più interessante. Quel che sta succedendo non è una colpa da dare alle persone. Ma una domanda da farsi: cosa cambiare nel sistema per far rientrare certi talenti».
«Quel che sta succedendo non è una colpa da dare alle persone. Ma una domanda da farsi»
Perché la mobilità è un fenomeno a doppia direzione. Si va e si torna. Non in Italia però. Dove la scelta di chi emigra è a senso unico. «Una vota fuori il perdi il network di conoscenze e la tua esperienza all’estero, anziché rafforzarti il cv, ti mette in svantaggio. Tutto questo rivela la chiusura del sistema, una mancanza di competizione leale».
«Un anno fa a Washington ho conosciuto un italiano che fa business qui. Abbiamo parlato di una possibile collaborazione. Mi avrebbe fatto piacere ritrovare un legame con l’Italia. Poi abbiamo parlato di stipendio. Offriva la metà di quanto era sul mercato. Questo è un problema culturale. Facciamo imprenditoria basandoci sull’idea di sfruttamento. Non abbiamo il concetto della valorizzazione delle risorse. E questa è una delle ragioni per cui non si creano opportunità».

MESSAGGIO PROMOZIONALE


C’è poi l’incapacità di fare sistema, inteso come il «creare qualcosa con dinamiche trasparenti». E il provincialismo. «Nella competizione globale siamo poco esposti a dibattiti sociali, per poca dimestichezza con le lingue straniere. Restiamo tagliati fuori da certe discussioni. Abbiamo internet ma non leggiamo l’inglese. Ad esempio sui giornali italiani in questo momento si legge troppo poco degli accordi transatlantici da Usa e Ue, sebbene condizioneranno il nostro futuro. Ciò riduce la nostra (e soprattutto quella di chi ci governa) capacità di analisi e di comprensione di quel che accade fuori. È difficile in questo contesto coltivare governanti con una visione diversa quando il dibattito è tutto focalizzato su temi di politica interna».
E allora anziché puntare il dito contro chi se ne va, propone Luca, c’è da mettersi a discutere su come creare opportunità di ritorno. O di coinvolgimento. «Perché tutti noi vorremmo tornare. Ma a certe condizioni».
«Possiamo aiutare a cambiare l’Italia, ma solo restando all’estero»
La soluzione per Palazzotto è coinvolgere sì gli expat nel dibattito politico italiano. Ma permettendogli di restare all’estero. «Siamo persone esposte al cambiamento. Porteremmo un grande beneficio al dibattito interno. Qui a Washington passano spesso politici nostrani e siccome la comunità italiana è piccola, loro cercano sempre di incontraci. Tutti dicono: “Vogliamo coinvolgere gli italiani all’estero. Ma nessuno sa come fare».
Alcune idee? «Riformare le istituzioni italiane, come le ambasciate, ormai obsolete e poco attive. O gli istituti di cultura, che spesso si limitano a proiettare film amarcord. Rafforzare le reti tra università nostrane e straniere, con progetti anche per il post laurea e che vadano oltre l’Erasmus. E poi usare le sedi estere dei partiti».
Tutto, ma non chiedere ai giovani già scottati dall’Italia di sacrificarsi in nome di un ideale «che magari non si avvererà».  

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