Droga, 100 dollari al giorno e il bollino nero sulla licenza, così combatte un miliziano dell'Is
Il Califfato ha il suo "esercito", con gerarchie carriere, stipendi e un consiglio militare. L’antiterrorismo europeo ha ricostruito l’organizzazione e i ruoli dei guerriglieri uniti sotto la bandiera della jihad
SE COMBATTI sei mesi ottieni il punteggio più alto. Se sei un foreign fighter e prendi in sposa una donna dei Paesi del Califfato lo raddoppi. E hai diritto a una licenza di tre, quattro, cinque giorni. Rilasciata da un ufficio permessi con tanto di timbro dell'Is: un bollino nero con all'interno il cerchio bianco che è il sigillo del profeta e la scritta della shahada, la professione di fede dell'Islam (come la bandiera). Il congedo viene concesso dopo un mese ininterrotto di conflitto. Un lasciapassare - preferibilmente nuziale, perché così richiedono i capi miliziani - prima di tornare a sparare e a versare sangue. Tanto più uccidi e ferisci e ti ferisci, tanto più il pegno di fedeltà alla jihad, già contrattualizzato con una diaria di 100 dollari al giorno, sarà rinsaldato sul campo. L'Is non è soltanto quello che vediamo: l'orrore e la rappresentazione mediatica dei prigionieri decapitati, le gabbie infuocate, i nemici portati in fila su una spiaggia e sgozzati. C'è anche una "normalità" nascosta, interna. Forse altrettanto sconvolgente. È quella del suo esercito. Che avendo per ora ancora una dimensione "paramilitare ", come spiegano gli esperti, è più indicato chiamare milizia. La milizia di un gruppo terroristico in espansione. Che ambisce a presentarsi al mondo come una realtà "statuale".
Attraverso fonti dell'Antiterrorismo europeo e altre fonti impegnate direttamente nei territori siriani e iracheni dove ha base il Califfato, Repubblica ha avuto accesso a informazioni e documenti esclusivi. Raccontano, per la prima volta da un punto di vista dell'organizzazione militare, come l'Is (acronimo di Stato islamico) gestisce i suoi combattenti. Sia quelli "locali" - siriani, iracheni, yemeniti, libici - sia i guerriglieri stranieri che partono dall'Europa e raggiungono le terre della bandiera nera attraverso la Turchia rispondendo alla dawa, la chiamata alle armi della jihad. Perché - spiega Paolo Maggiolini, esperto di radicalismo islamico e ricercatore dell'Ispi (Istituto per gli studi di politica internazionale) - "la composizione delle milizie Is è sempre più eterogenea. Così come i suoi armamenti. Che provengono da un'ottantina di Paesi (in primis Usa per via della guerra irachena, Russia attraverso fuoriusciti dall'esercito siriano, e Francia)".
Sono trentamila i miliziani jihadisti, secondo stime Cia di fine 2014, attualmente arruolati con l'Is. Come vengono trattati? Che cosa ricevono in cambio del loro sacrificio sul campo, del contributo all'avanzata dell'autoproclamato Stato del califfo Abu Bakr Al Baghdadi? Come sono valutati e istruiti da chi ha il compito di organizzare le piccole unità (20-30 uomini, quattro pick-up con armi) che sono tornate a essere il modello "strutturale" dei miliziani del terrore?
Partiamo dai soldi. Al netto del "fattore motivazionale religioso", la diaria di guerra della jihad corrisponde, proporzionalmente, a meno della metà di quella di un esercito "normale". Per dire: israeliano, americano, o francese. Sebbene fonti statunitensi abbiano messo in circolo in questi mesi voci di indennità giornaliere da 200 dollari, in realtà la "paga" media che il Califfato riconosce ai suoi guerriglieri - secondo autorevoli fonti dell'Antiterrorismo di Bruxelles - si aggira tra gli 80 e i 120 dollari. Una media ragionevole può essere fissata a 100 dollari. "La cifra è da intendersi come un valore che tenga conto dei diversi ruoli e competenze -- spiega un investigatore impegnato da tempo sullo scacchiere della prevenzione anti Is - da chi svolge semplici operazioni sul campo, a chi partecipa a azioni più importanti come l'eliminazione di un leader avversario o attentati di diverso tipo. Può essere un'autobomba che esplode o una strage in grande stile".
Tre milioni di dollari. Tanto costa, ogni giorno, la milizia del Califfato (calcolando la sola voce combattenti). Un miliardo di dollari l'anno. Inutile stare a avventurarsi nel ginepraio delle fonti di finanziamento: petrolio, traffici illeciti tra cui tratta di esseri umani e vendita e stoccaggio di droga, oltre al resto. Più interessante capire quanto "rende" un jihadista. Turni di sedici ore al giorno. Sette giorni su sette. Un mese di servizio continuativo. Poi, a seconda della valutazione espressa dai responsabili incaricati dai "colonnelli" del consiglio militare, la licenza: tre, massimo cinque giorni. C'è un ufficio licenze che vidima il lasciapassare. Che autorizza il guerrigliero a allontanarsi dal fronte. I tentativi di defezione sono severamente puniti: a volte anche con la morte. "Aiutatemi, voglio tornare a casa". Come non ricordare le lettere dei giovani jihadisti "mammoni", un centinaio quelli pentiti tra i 1.100 foreign fighters francesi partiti per Siria e Iraq, pubblicate a dicembre scorso da Le Figaro.
"Ma la maggior parte dei guerriglieri che vanno là sanno bene le regole di Is. Chi si arruola non ne esce più. Molti vengono da situazioni di difficoltà personale o addirittura di disperazione. E là nella jihad trovano una realizzazione". Il reporter veneto Ivan Compasso, già corrispondente da Medio Oriente, Siria e Libano per Radio Sherwood, è autore di un documentario sull'assedio di Kobane, dove è entrato grazie a un trafficante di uomini e a alcune centinaia di dollari. "I capi favoriscono i matrimoni tra combattenti e donne del posto. L'avanzata propagandistica di Is passa anche dalla composizione sociale: at- traverso nuove unioni familiari".
Il miliziano che decide di sposarsi è autorizzato a oltrepassare i confini del sedicente Stato islamico. Ci sono appositi permessi timbrati. Altri certificati vengono emessi per chi si ferisce in battaglia. Is ha i suoi medici, i suoi ospedali, i suoi presidi sanitari. Sono professionisti siriani e iracheni convertiti, spontaneamente o forzatamente, alla jihad. Finiti sotto il cappello della bandiera nera. Perché in quella "flessibilità" che l'analista Paolo Maggiolini definisce "apparentemente frammentaria", non proprio tutto, ma molto, anche i dettagli, passa sotto il controllo minuzioso delle gerarchie del Califfato. "Cambiano forma continuamente, e anche qui sta la loro abilità. Ma l'impostazione che hanno dato alla struttura terroristica è rigorosa e metodica".
Come funziona la valutazione dei miliziani? Quali sono i criteri con cui sono "pesati"? Esiste un protocollo. Chiamiamolo pure, per semplificare, un codice militare. I luogotenenti dei due uomini a cui Al Baghdadi ha affidato l'organizzazione e il controllo militare di Siria e Iraq - rispettivamente Abu Ali Allambari e Abu Muslim al Turkmani - lo hanno calato nei territori ritenendolo un modo semplice ed efficace per la gestione della task force: che siano battaglioni o piccole unità operative non importa. L'esistenza del codice è provata da documenti timbrati Is. E confermata dall'Antiterrorismo europeo. Il codice va a punteggio. Ci sono cinque criteri di valutazione. Ruolo. Pegno di fedeltà. Anzianità. Rendimento in battaglia. Ferimenti subìti (con eventuale inabilità bellica che però deve essere certificata da ospedali o centri medici del Califfato). Il punteggio massimo per ogni criterio è di 6 punti. Il guerrigliero lo ottiene combattendo per un periodo di almeno sei mesi. Se, come detto, specie nel caso dei foreign fighter, si sposa con una donna locale, raddoppia il punteggio (6+6). Il ferimento in battaglia è considerato ovviamente una medaglia: 3 punti. Così come la giovane età (se il "soldato" ha meno di 20 anni). Ragiona una fonte dell'Antiterrorismo: "Calcoliamo le perdite dovute all'intensificazione degli attacchi aerei. E però anche i nuovi reclutamenti di questi mesi. È vero, questo "esercito" ha ancora una dimensione paramilitare. Ma chi lo gestisce riesce a tenere molto alto l'aspetto motivazionale".
Possibile che un combattente venuto dalla Cecenia o dal Belgio, dalla Francia o dall'Inghilterra, trovi la forza di riempire il "pallottoliere" dei punti in battaglia così? Affermarsi agli occhi dei capi delle milizie jihadiste senza altre motivazioni che non siano la "liberazione" dall'Occidente oppressore e il verbo sacro della Shahada ( "testimonio che non c'è divinità se non Dio - Allàh - e testimonio che Muhammad è il suo Messaggero")? Forse no. Una delle spiegazioni alternative possibili sta in alcune immagini che pubblichiamo. Documentano altro. Coi suoi uomini mandati al macello (o a provocarlo) Is è generoso. A chi combatte vengono fornite droghe: soprattutto sintetiche. Anfetamine e metanfetamine. E cocaina. Come in tutti i conflitti dove occorre essere lucidamente aggressivi. Dove bisogna avanzare occupando nuovi territori e cercando di sottomettere la popolazione.
Oltre a carte di credito (ma la diaria viene consegnata prevalentemente in contanti), telefoni cellulari con numeri consistenti di sim card, permessi accordati e punti "validati", l'equipaggiamento - diciamo - extramilitare del jihadista comprende un'altra voce. Il viagra. Che c'entra? Perché distribuire ai terroristi la pillola blu dell'amore in un teatro di atrocità dove si falciano teste e si bruciano corpi da esibire al mondo?
Il viagra serve per gli stupri. Le donne dei paesi e delle città conquistate vengono violentate come segno del passaggio di Is. Lo prevede il decalogo dell'orrore: con dei distinguo. Le più attraenti vengono fatte schiave e poi vendute. Le altre stuprate e uccise. "Sono avanzati così, verso Kobane - ricorda Ivan Compasso - però lì hanno trovato la strenua resistenza da parte dei miliziani curdi di Wpj e Wpg. Le donne non solo non si sono fatte violentare ma hanno imbracciato il kalashnikov difendendo la loro città e riuscendo infine a prevalere".
Soldi, droga, promozioni, matrimoni combinati. Oltre alla promessa della gloria eterna per la morte "nella jihad". Ma non sempre è così. Areeb Majeed, 23 anni, ingegnere indiano. La sua vita a fianco dei miliziani dell'Is non era nemmeno lontanamente ciò che si era immaginato: niente preghiere, nessuna battaglia da combattere in prima linea. Solo turni a pulire bagni. Ha preso il suo zaino e è tornato a Mumbai. Ad aspettarlo c'era la National Investigation Agency indiana che lo ha arrestato per terrorismo. Fanatici, folli. Pentiti. Come Areeb ce ne sono tanti. Molti di più sono quelli che partono e non tornano. Perché ormai è tropo tardi. È la firma di morte del Califfato nero.
Attraverso fonti dell'Antiterrorismo europeo e altre fonti impegnate direttamente nei territori siriani e iracheni dove ha base il Califfato, Repubblica ha avuto accesso a informazioni e documenti esclusivi. Raccontano, per la prima volta da un punto di vista dell'organizzazione militare, come l'Is (acronimo di Stato islamico) gestisce i suoi combattenti. Sia quelli "locali" - siriani, iracheni, yemeniti, libici - sia i guerriglieri stranieri che partono dall'Europa e raggiungono le terre della bandiera nera attraverso la Turchia rispondendo alla dawa, la chiamata alle armi della jihad. Perché - spiega Paolo Maggiolini, esperto di radicalismo islamico e ricercatore dell'Ispi (Istituto per gli studi di politica internazionale) - "la composizione delle milizie Is è sempre più eterogenea. Così come i suoi armamenti. Che provengono da un'ottantina di Paesi (in primis Usa per via della guerra irachena, Russia attraverso fuoriusciti dall'esercito siriano, e Francia)".
Sono trentamila i miliziani jihadisti, secondo stime Cia di fine 2014, attualmente arruolati con l'Is. Come vengono trattati? Che cosa ricevono in cambio del loro sacrificio sul campo, del contributo all'avanzata dell'autoproclamato Stato del califfo Abu Bakr Al Baghdadi? Come sono valutati e istruiti da chi ha il compito di organizzare le piccole unità (20-30 uomini, quattro pick-up con armi) che sono tornate a essere il modello "strutturale" dei miliziani del terrore?
Partiamo dai soldi. Al netto del "fattore motivazionale religioso", la diaria di guerra della jihad corrisponde, proporzionalmente, a meno della metà di quella di un esercito "normale". Per dire: israeliano, americano, o francese. Sebbene fonti statunitensi abbiano messo in circolo in questi mesi voci di indennità giornaliere da 200 dollari, in realtà la "paga" media che il Califfato riconosce ai suoi guerriglieri - secondo autorevoli fonti dell'Antiterrorismo di Bruxelles - si aggira tra gli 80 e i 120 dollari. Una media ragionevole può essere fissata a 100 dollari. "La cifra è da intendersi come un valore che tenga conto dei diversi ruoli e competenze -- spiega un investigatore impegnato da tempo sullo scacchiere della prevenzione anti Is - da chi svolge semplici operazioni sul campo, a chi partecipa a azioni più importanti come l'eliminazione di un leader avversario o attentati di diverso tipo. Può essere un'autobomba che esplode o una strage in grande stile".
Tre milioni di dollari. Tanto costa, ogni giorno, la milizia del Califfato (calcolando la sola voce combattenti). Un miliardo di dollari l'anno. Inutile stare a avventurarsi nel ginepraio delle fonti di finanziamento: petrolio, traffici illeciti tra cui tratta di esseri umani e vendita e stoccaggio di droga, oltre al resto. Più interessante capire quanto "rende" un jihadista. Turni di sedici ore al giorno. Sette giorni su sette. Un mese di servizio continuativo. Poi, a seconda della valutazione espressa dai responsabili incaricati dai "colonnelli" del consiglio militare, la licenza: tre, massimo cinque giorni. C'è un ufficio licenze che vidima il lasciapassare. Che autorizza il guerrigliero a allontanarsi dal fronte. I tentativi di defezione sono severamente puniti: a volte anche con la morte. "Aiutatemi, voglio tornare a casa". Come non ricordare le lettere dei giovani jihadisti "mammoni", un centinaio quelli pentiti tra i 1.100 foreign fighters francesi partiti per Siria e Iraq, pubblicate a dicembre scorso da Le Figaro.
"Ma la maggior parte dei guerriglieri che vanno là sanno bene le regole di Is. Chi si arruola non ne esce più. Molti vengono da situazioni di difficoltà personale o addirittura di disperazione. E là nella jihad trovano una realizzazione". Il reporter veneto Ivan Compasso, già corrispondente da Medio Oriente, Siria e Libano per Radio Sherwood, è autore di un documentario sull'assedio di Kobane, dove è entrato grazie a un trafficante di uomini e a alcune centinaia di dollari. "I capi favoriscono i matrimoni tra combattenti e donne del posto. L'avanzata propagandistica di Is passa anche dalla composizione sociale: at- traverso nuove unioni familiari".
Il miliziano che decide di sposarsi è autorizzato a oltrepassare i confini del sedicente Stato islamico. Ci sono appositi permessi timbrati. Altri certificati vengono emessi per chi si ferisce in battaglia. Is ha i suoi medici, i suoi ospedali, i suoi presidi sanitari. Sono professionisti siriani e iracheni convertiti, spontaneamente o forzatamente, alla jihad. Finiti sotto il cappello della bandiera nera. Perché in quella "flessibilità" che l'analista Paolo Maggiolini definisce "apparentemente frammentaria", non proprio tutto, ma molto, anche i dettagli, passa sotto il controllo minuzioso delle gerarchie del Califfato. "Cambiano forma continuamente, e anche qui sta la loro abilità. Ma l'impostazione che hanno dato alla struttura terroristica è rigorosa e metodica".
Come funziona la valutazione dei miliziani? Quali sono i criteri con cui sono "pesati"? Esiste un protocollo. Chiamiamolo pure, per semplificare, un codice militare. I luogotenenti dei due uomini a cui Al Baghdadi ha affidato l'organizzazione e il controllo militare di Siria e Iraq - rispettivamente Abu Ali Allambari e Abu Muslim al Turkmani - lo hanno calato nei territori ritenendolo un modo semplice ed efficace per la gestione della task force: che siano battaglioni o piccole unità operative non importa. L'esistenza del codice è provata da documenti timbrati Is. E confermata dall'Antiterrorismo europeo. Il codice va a punteggio. Ci sono cinque criteri di valutazione. Ruolo. Pegno di fedeltà. Anzianità. Rendimento in battaglia. Ferimenti subìti (con eventuale inabilità bellica che però deve essere certificata da ospedali o centri medici del Califfato). Il punteggio massimo per ogni criterio è di 6 punti. Il guerrigliero lo ottiene combattendo per un periodo di almeno sei mesi. Se, come detto, specie nel caso dei foreign fighter, si sposa con una donna locale, raddoppia il punteggio (6+6). Il ferimento in battaglia è considerato ovviamente una medaglia: 3 punti. Così come la giovane età (se il "soldato" ha meno di 20 anni). Ragiona una fonte dell'Antiterrorismo: "Calcoliamo le perdite dovute all'intensificazione degli attacchi aerei. E però anche i nuovi reclutamenti di questi mesi. È vero, questo "esercito" ha ancora una dimensione paramilitare. Ma chi lo gestisce riesce a tenere molto alto l'aspetto motivazionale".
Possibile che un combattente venuto dalla Cecenia o dal Belgio, dalla Francia o dall'Inghilterra, trovi la forza di riempire il "pallottoliere" dei punti in battaglia così? Affermarsi agli occhi dei capi delle milizie jihadiste senza altre motivazioni che non siano la "liberazione" dall'Occidente oppressore e il verbo sacro della Shahada ( "testimonio che non c'è divinità se non Dio - Allàh - e testimonio che Muhammad è il suo Messaggero")? Forse no. Una delle spiegazioni alternative possibili sta in alcune immagini che pubblichiamo. Documentano altro. Coi suoi uomini mandati al macello (o a provocarlo) Is è generoso. A chi combatte vengono fornite droghe: soprattutto sintetiche. Anfetamine e metanfetamine. E cocaina. Come in tutti i conflitti dove occorre essere lucidamente aggressivi. Dove bisogna avanzare occupando nuovi territori e cercando di sottomettere la popolazione.
Oltre a carte di credito (ma la diaria viene consegnata prevalentemente in contanti), telefoni cellulari con numeri consistenti di sim card, permessi accordati e punti "validati", l'equipaggiamento - diciamo - extramilitare del jihadista comprende un'altra voce. Il viagra. Che c'entra? Perché distribuire ai terroristi la pillola blu dell'amore in un teatro di atrocità dove si falciano teste e si bruciano corpi da esibire al mondo?
Il viagra serve per gli stupri. Le donne dei paesi e delle città conquistate vengono violentate come segno del passaggio di Is. Lo prevede il decalogo dell'orrore: con dei distinguo. Le più attraenti vengono fatte schiave e poi vendute. Le altre stuprate e uccise. "Sono avanzati così, verso Kobane - ricorda Ivan Compasso - però lì hanno trovato la strenua resistenza da parte dei miliziani curdi di Wpj e Wpg. Le donne non solo non si sono fatte violentare ma hanno imbracciato il kalashnikov difendendo la loro città e riuscendo infine a prevalere".
Soldi, droga, promozioni, matrimoni combinati. Oltre alla promessa della gloria eterna per la morte "nella jihad". Ma non sempre è così. Areeb Majeed, 23 anni, ingegnere indiano. La sua vita a fianco dei miliziani dell'Is non era nemmeno lontanamente ciò che si era immaginato: niente preghiere, nessuna battaglia da combattere in prima linea. Solo turni a pulire bagni. Ha preso il suo zaino e è tornato a Mumbai. Ad aspettarlo c'era la National Investigation Agency indiana che lo ha arrestato per terrorismo. Fanatici, folli. Pentiti. Come Areeb ce ne sono tanti. Molti di più sono quelli che partono e non tornano. Perché ormai è tropo tardi. È la firma di morte del Califfato nero.
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