Come Ignazio Marino è stato massacrato dai giornali e fatto fuori dal suo partito
News Editor
Nel maggio del 2013 ero in piazza San Giovanni per la chiusura della campagna elettorale di Ignazio Marino—candidato dal Partito Democratico in un momento in cui la segreteria romana era allo sbando più totale—e ricordo distintamente la sensazione di mestizia che si respirava, unita alla sostanziale indifferenza della città nei confronti di quell'elezione.
Ovviamente, dopo la catastrofica esperienza dell'amministrazione di Gianni Alemanno, un'indifferenza del genere era ampiamente preventivabile. E nessuno ha mai veramente creduto—PD in primis—che Ignazio Marino potesse rivoluzionare, o più modestamente sistemare, una città come Roma. Non c'è voluto molto, infatti, per vedere la nuova giunta di Ignazio Marino trasformarsi prima una barzelletta, e poi un immenso sfogatoio su cui praticamente chiunque ha riversato la frustrazione e la rabbia per tutti i problemi della Capitale.
Certo, Marino si è rivelato sin da subito profondamente inadeguato non solo per una stile comunicativo a dir poco disastroso, ma soprattutto per il fatto che non è mai stato in grado di intrattenere un minimo rapporto con il territorio—basta questo video da Tor Sapienza per farsene un'idea.
C'è anche da dire che in questi due anni e mezzo a Roma è successo di tutto—tra Mafia Capitale, campagne isteriche sul degrado, sgomberi, funerali dei Casamonica e il Giubileo straordinario, Marino si è trovato in mezzo a scandali e polemiche che lo hanno progressivamente indebolito e ridotto all'isolamento più totale.
Ma a parte l'ovvia opposizione delle forze di minoranza e di alcune lobby romane a cui nemmeno troppo volontariamente Marino ha pestato i piedi, il suo principale nemico è sempre stato il Partito Democratico. E specialmente la sua branca romana che, com'è emerso dalle indagini di Mafia Capitale e dalla relazione di Fabrizio Barca sui circoli, non è esattamente un club di filantropi disinteressati. Lo scorso giugno, lo scontro aveva raggiunto la sua massima intensità quando Matteo Renzi aveva detto che "fossi in Marino non starei tranquillo" e lo aveva invitato a valutare se fosse il caso di andare avanti.
Fin qui potrebbe trattarsi di vicende che riguardano—almeno esteriormente—"solo" Roma e i romani, ma se si ripercorrono brevemente gli ultimi mesi ci si accorge che la questione si è imposta a livello nazionale e ha interessato persone a cui degli scazzi tra Marino e il PD, o dell'amministrazione di Roma stessa, non poteva fregare più di tanto.
Ciò è avvenuto principalmente grazie alle vette assurde raggiunte dalle campagne di stampa contro il sindaco, tra polemiche sulle "immersioni" estive e quella con il Papa sul viaggio negli Stati Uniti. Ed è proprio questa la cornice in cui va inquadrato il surreale accanimento sulle spese di rappresentanza—documenti, tra l'altro, pubblicati sul sito del Comune dallo stesso Marino, che così facendo ha commesso il suo suicidio politico.
Da giorni, infatti, i quotidiani grondano di interviste a ristoratori che "inchiodano" il sindaco per le sue cene, o pezzi in cui si percorre addirittura il "tour dei ristoranti" frequentati da Marino—reportage su strada in cui si possono leggere passaggi del genere: "L'idea del primo cittadino che si ha alla fine della passeggiata tra piazza del Fico e piazza del Collegio Romano è quella di un gourmet 'pigro', ma allo stesso tempo sperimentatore."
Nella foga di scartabellare gli scontrini, l'apice è stato raggiunto con l'indignazione per i fiori comprati e offerti alla redazione di Charlie Hebdo dopo la strage e—non sto scherzando—per una colazione di 8 euro offerta a un reduce di Auschwitz.
Tutto questo, giusto per mettere le cose in prospettiva, è avvenuto nella città in cui l'ex sindaco Alemanno è passato pressoché indenne a scandali immani come quello di "Parentopoli" che la collettività sta pagando ancora adesso. Insomma, pretendere la testa di Ignazio Marino per una bottiglia di "Jermann vintage tunina" da 55 euro è veramente assurdo. Eppure, è quello che è successo.
E al di là delle opinioni su Marino, la campagna sullo "scontrino-gate" è quanto di più strumentale si sia visto nella politica italiana degli ultimi tempi. L'etica in questo caso non c'entra davvero nulla. La semplice realtà, infatti, è che Ignazio Marino sta davvero sul cazzo a Matteo Renzi e gran parte del Partito Democratico, e anche per questo motivo doveva levarsi di torno il più presto possibile, con le buone o con le cattive—vuoi perché il MoVimento 5 Stelle è in testa ai sondaggi e il PD in calo, vuoi perché le opposizioni non vedono l'ora di fare campagna elettorale sulle macerie lasciate in questi anni.
Ieri sera, al termine una giornata convulsa, le dimissioni sono arrivate con tanto di video-messaggio pubblicato su Facebook: l'ex sindaco ha detto di aver "molto riflettuto prima di assumere la mia decisione," poi ha lamentato di essere vittima di "un'aggressione," e infine ha rivendicato il suo operato: "Dal lavoro che ho impostato passa il futuro della città."
Curiosamente, due anni fa anche Matteo Renzi—che non ha ancora rilasciato una singola dichiarazione sulle dimissioni—aveva parlato di futuro. "Chi si accontenta di come vanno le cose vota per Gianni Alemanno," aveva detto l'attuale premier durante la campagna elettorale, proprio a fianco dell'ormai ex sindaco di Roma. "Chi le vuole cambiare e scegliere il futuro, vota Ignazio Marino, e noi siamo qui con Ignazio."
Ecco: chi ha scelto "il futuro" nel 2013, ora si ritrova ad assistere all'ennesimo, umiliante psicodramma interno al Partito Democratico, nonché ad uno spettacolo indegno che avrà pur fatto esultare chi stava in piazza del Campidoglio, ma che non farà altro che aggravare le condizioni di una città che sta già vivendo uno dei peggiori momenti della sua storia recente.
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