Intervista a Oscar Farinetti di Eataly: "Mio padre partigiano liberò l'Italia. Ora ci vorrebbe una nuova liberazione. Ma Renzi da solo non basta"
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A ottant’anni suonati, fazzoletto tricolore al collo, guidò la contestazione a Gianfranco Fini: «L’amministrazione di Alba aveva invitato l’allora vicepresidente del consiglio. Per mio padre, era insopportabile ospitare un fascista – perché, per lui, Fini rimaneva un fascista – nella città medaglia d’oro per la resistenza. Fece di tutto per fermarlo».
L’indomito partigiano descritto risponde al nome di Paolo Farinetti, comandante della XXI brigata Matteotti, personaggio leggendario della resistenza piemontese, poi fondatore dell’azienda Unieuro, una prosecuzione della politica con altri mezzi: «Il nome è un omaggio ad Altiero Spinelli. Significa Europa unita, un tributo al suo Manifesto di Ventotene».
Dopo essere stato raccontato dagli storici della resistenza, per la prima volta è il figlio Oscar, creatore di Eatlay e uno dei capi d’azienda più di successo del nostro paese, a presentarlo a tutti: "Ho voluto raccontare la sua storia nel settantesimo anniversario della liberazione per affermare, nel mio piccolo, una verità: che allora la ragione stava da una parte e il torto dall’altra, c’è bisogno di marcare questa verità dopo la lunga stagione del revisionismo italiano".
L’epopea del comandante Paolo – con i suoi momenti gloriosi (la liberazione di Alba) e quelli angosciosi (le ferite di battaglia e quelle della vita, nel difficile dopoguerra) – è esposta per intero nel libro Mangia con il pane (Mondadori). Al telefono conl’Huffington Post, però, Oscar Farinetti parla anche d’altro: "La nuova liberazione di cui l’Italia avrebbe bisogno, ora che sta di nuovo toccando il fondo". Ma ci arriviamo.
Farinetti, ma lo spiegò a suo padre che Gianfranco Fini aveva fatto – dal congresso di Fiuggi in poi – un percorso per rinnovare la destra?
Ci provai. Lui, però, non ne voleva sapere: ai suoi occhi, un fascista era sempre un fascista. Aveva una ripulsa fisica per chiunque avesse sostenuto il regime, e anche per chi l’aveva giustificato.
Che senso ha raccontare quella storia oggi?
Prima di ogni cosa, per affermare che il torto sta dalla parte di chi ha firmato le leggi razziali, di chi ha voluto fare una guerra in cui ci sono stati 55 milioni di morti, dalla parte di chi ha impedito per vent’anni di esprimere libertà di pensiero.
Seconda cosa?
Per dire che la guerra partigiana è stata condotta con grande determinazione, molto coraggio, decine di gesti eroici: ma anche con moderazione. Mio papà non ha mai fucilato nessuno. Ha sempre trattato bene i prigionieri e li ha usati per gli scambi. Infine, ho pensato ai miei figli e alle nuove generazioni. Volevo mandare loro un messaggio.
Quale?
È vero che gli alleati avrebbero liberato l’Italia anche senza i partigiani. Ma l’importanza della resistenza sta nella riscossa. Combattendo, gli italiani si sono riappropriati del loro paese, sono stati protagonisti, non comparse della storia.
Si è mai interrogato sulle scelte che ha compiuto l’altra parte dell’Italia, quella fascista?
La storia dimostra che dopo il 25 aprile del 1945 anche alcuni partigiani hanno consumato delle vendette. Non ho difficoltà a dirlo: hanno sbagliato. Ciò, però, non è paragonabile agli eccidi compiuti dai nazi-fascisti, e non cambia il senso della storia. Vede, anche i vietnamiti non sono andati alla leggera con gli americani. Ma la ragione stava dalla parte del Vietnam, il torto dalla parte dell’America.
Scrive: «Mio padre non era un padrone, era un comandate».
Nelle scelte di mio padre, anche in quelle imprenditoriali, c’erano sempre degli obiettivi poetici. Il padrone è orientato al profitto e soltanto al profitto. Mio padre non era così, puntava all’armonia del gruppo, aveva come priorità le persone: era un portato di quell’esperienza straordinaria vissuta lì sui monti.
È rimasto questo il modo di fare impresa a Eataly?
A me fa orrore il capitalismo finanziario. Guadagnare soldi dai soldi, significa far scomparire il rischio d’impresa. Io mi sento molto più figlio della generazione di mio padre, dove l’imprenditore scaricava i camion, sapeva cos’era la fatica.
È il mio modello: l’imprenditore che ha coraggio, che investe tutti i suoi guadagni nell’azienda che li ha prodotti. Non lo trovo affatto un modo arcaico: anzi, credo sia molto moderno.
Suo padre le diceva: «Si può stare tranquilli solo dopo le cinque». Era l’ora in cui le banche chiudevano e smettevano di stargli col fiato sul collo.
Mi fanno molta pena, oggi, gli imprenditori che fanno credito e non lo ricevono. Mi fanno ancora più arrabbiare le banche che prestano i soldi a chi li ha già. Devo dire, però, che ho incontrato anche imprenditori che si lamentano molto, che vanno in televisione ad urlare, e forse non hanno grandi progetti a cui dedicarsi. Ecco: penso che ci siano imprenditori che meritano credito e imprenditori che non lo meritano. L’Italia dovrebbe investire sulle imprese che puntano alle specificità italiane: la bellezza, l’arte, la cultura. Incentivando chi rischia e mette in gioco la propria vita, le proprie ore di lavoro, i propri soldi.
Ha appreso molto da suo padre e dalle sue fatiche. Oggi è diventato un imprenditore di successo. Le chiedo: i suoi figli – che lavorano con lei – possono imparare l’etica del sacrificio che sta elogiando dalla posizione di privilegio da cui partono?
Ma io ho Eataly l’ho fondata insieme ai miei figli, otto anni fa. E il motivo principale per cui io ho lasciato Unieuro per fare Eataly è proprio questo: ho visto che loro volevano lavorare insieme a me e ho pensato che fare un progetto insieme sarebbe stata la cosa migliore. Sono ri-partiti da zero. Il successo di Eataly è merito di tutti noi. In più, ora, ho deciso di lasciare l’azienda. Per cui, Eataly è più loro che mia.
Scrive: «Ci vorrebbe una nuova liberazione». Ma da cosa?
Penso che all’Italia serva un nuova primavera. L’8 settembre del ’43 toccammo il fondo e da lì ripartimmo. Credo che questo paese si stia di nuovo avvicinando al fondo e abbia bisogno di risollevarsi. Come? Non credo che la via giusta sia quella di Maurizio Landini: la primavera dei lavoratori contro gli imprenditori. Sogno, invece, una primavera che unisca tutte le categorie di persone, dalle più umili alle più colte, per resistere al degrado del senso civico, al vittimismo isterico, al piagnisteo che non cerca e non vuole soluzioni, all’approssimazione di certi media scandalistici.
Non la vede incarnata in Matteo Renzi, questa primavera?
Renzi non basta. Mi piace, mi piace la sfida che ha lanciato al benaltrismo; apprezzo l’idea riformista secondo cui è giusto fare le cose, anche se sono imperfette. Ma non basta. Per reagire, un paese ha bisogno di tutti i suoi cittadini, non del solo uomo al comando.
Ripete spesso un insegnamento di suo padre: «Valgono più le persone che le cose». A Firenze, i lavoratori di Eatalay l’hanno accusata di mettere davanti alle loro vite il suo profitto.
Non sono i lavoratori di Firenze che mi hanno accusato. Sono tre – ripeto: tre – lavoratori dei Cobas. La verità è che non avevano tanta voglia di lavorare. Ma siccome questo non potevano dirselo e dirlo, hanno lanciato quella campagna. Il can can mediatico è partito e il caso è divampato. Ma le assicuro, erano tre. E sarebbe terrificante se io dicessi le cose che ho detto a lei e nel mio lavoro mi comportassi in maniera opposta. Non è affatto così. Se fosse vero, credo che non avrei avuto il successo che ho avuto. Chi sfrutta le persone, chi fa il furbo, non va mai da nessuna parte. È un altro insegnamento che ho ereditato da mio padre.
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