Fisco: lo Stato usa due pesi e due misure per se stesso e i contribuenti
Lo Stato dovrebbe essere rigoroso con chi non rispetta le regole fiscali e fare altrettanto con se stesso quando succede. E invece non è così
In partnership con Leoni Blog
In un paese civile e ordinato, il fisco dovrebbe essere una materia chiara nelle sue norme e rigorosa nella reciprocità dei rapporti: lo Stato rigoroso verso chi non ottempera al dovere fiscale, ma anche pronto a sottoporsi alla stessa regola quando è lui, a finire in torto verso i contribuenti. Invece, da decenni aggiungiamo stortura a stortura. Il dovere fiscale è fatto di norme sempre più complicate e fumose. E lo Stato, in nome della lotta all’evasione e in difficoltà nei conti pubblici, sempre più pretende dal contribuente comportamenti ai quali è il primo a sottrarsi. La conseguenza? Lo Stato rigoroso a senso unico perde credibilità e legittimità, e senza di queste non vincerà la lotta all’evasione.
Lo Stato dovrebbe essere rigoroso verso chi non ottempera al dovere fiscale, ma anche pronto a sottoporsi alla stessa regola quando è lui, a finire in torto
Alcuni esempi concreti, che danno evidenza al nostro assunto. Martedì è ripreso il tortuoso cammino dell’applicazione della delega fiscale, dopo l’incidente in cui il governo è incorso alla vigilia di Natale con un testo – rimasto senza padre, scomparso nel silenzio – in cui affiorava un’incredibile norma di depenalizzazione della frode fiscale. Dei tre decreti delegati approvati martedì in Consiglio dei ministri e che ora andranno all’esame parlamentare, uno molto atteso riguarda il cosiddetto “abuso di diritto”. Tra le tante stranezze indigeribili del nostro paese, vi era quella di un reato penale tributario, l’elusione fiscale da abuso di diritto, mai scritta da alcun legislatore in alcun codice, ma entrata nel nostro ordinamento attraverso estensive definizioni giurisprudenziali, cioè con sentenze dei giudici, fino a pronunzie di Cassazione che ne avevano definito la fattispecie. Era divenuto reato penale la scelta da parte di un’impresa, nel pieno rispetto delle leggi fiscali esistenti – ripetiamolo: nel pieno rispetto delle leggi esistenti, senza violarne alcuna – di allocazioni di asset o di attività da cui conseguisse un vantaggio fiscale. Poiché la norma ha creato infinite interpretazioni diverse, affidate alla discrezionalità del giudice, e vasto contenzioso, la legge delega chedeva di fare finalmente chiarezza.
La chiarezza è consistita nel fatto che il reato non sarà più penale ma amministrativo, ma per il resto esso resta praticamente com’era stato in precedenza definito dalla Corte di Cassazione. Certo, si scrive che sarà l’Agenzia delle Entrate a doverlo provare (altra stortura, nel nostro ordinamento ha finito per prevalere l’idea che spetti al contribuente l’onere della prova..), e si ammette benignamente la possibilità che l’impresa possa preventivamente interpellare l’Agenzia prima di compiere la sua scelta (altro segno che non ci siamo: chiedere preventivamente permesso prima di fare una cosa è la miglior riprova che le norme da sole non consentono di capirlo). Ma resta il fatto che, se nel pieno rispetto delle norme vigenti un’impresa dovesse compiere scelte o assumere condotte tali da realizzare un prevalente vantaggio fiscale rispetto a quello economico o organizzativo, ecco che allora Guardia di Finanza e Agenzia delle Entrate avranno comunque la facoltà di contestarlo in nome del fatto che il risparmio fiscale sia illegittimo. L’imprenditore non può perseguire un vantaggio fiscale consentito dalle norme, se non ci sono evidenze che il vantaggio prevalente conseguito in conto economico e patrimoniale venga da altro: come se il fisco fosse una componente residuale, del risultato finale annuale.
Agenti del fisco e commissioni tributarie resteranno loro i veri e unici depositari di che cosa configuri il vantaggio fiscale legittimo rispetto a quello illegittimo
Aspettarsi da un simile “chiarimento” meno incertezza e contenzioso è del tutto singolare, per non dire lunare. Agenti del fisco e commissioni tributarie resteranno loro i veri e unici depositari di che cosa configuri il vantaggio fiscale legittimo rispetto a quello illegittimo. Da una norma così, le imprese ricavano la non trascurabile certezza di evitare il penale, non quella di sapere con sicurezza che scelte poter compiere tali da evitare contestazioni tributarie. E in ogni caso il precedente contenzioso resterà in piedi penale compreso, secondo la pessima abitudine del fisco di non riconoscere che, quando una nuova norma è in favore di presunti precedenti rei, l’accusa decade automaticamente.
Si dirà che nei decreti delegati vi sono comunque novità positive, dal decadere dei doppi termini di accertamento da 4 a 8 anni che l’Agenzia delle Entrate aveva ottenuto per sé in presenza di segnalazioni all’Autorità giudiziaria, alla fatturazione elettronica che gradualmente supera spesometro e scontrini. Verissimo: ma quanto a chiarire in che cosa consista la presunta elusione nella scelta di opzioni fiscalmente più vantaggiose offerte dalla stessa legislazione italiana ed europea, il decreto ha fallito la delega che gli era affidata. Ed è lo Stato a riservarsi discrezionalmente l’ultima parola.
Lo Stato si scrive una sentenza per non pagare gli interessi al contribuente, al quale ha intanto anche alzato le tasse
A che cosa corrisponde questa opacità dello Stato verso il contribuente, quando il torto conclmato è dello Stato e non del cittadino? Vediamone alcuni esempi concreti. Il primo è la sentenza della terza sezione del TAR del Lazio il 15 febbraio scorso, sul caso della signora Ivana Antonietta Di Mambro. Riconosciuta la fondatezza della sua richiesta, e cioè il pieno riconoscimento di un indennizzo dovutogli dal ministero della Salute compreso il periodo dal 2009 a oggi, il TAR ha negato che siano dovuti alla signora anche gli interessi di mora intercorsi sul mancato pagamento. La giustificazione? Testuale: “vista la condizione in cui versa la Pubblica amministrazione debitrice, debitamente documentate, nonché la notoria situazione di congiuntura che ha imposto severi tagli alla spesa pubblica, particolarmente nel settore sanitario afflitto da disavanzi di notevoli dimensioni”. Chiunque dovrebbe insorgere, leggendo un simile dispositivo. Il contribuente, quand’anche ammesso a rateazione dallo Stato per mancanza di liquidi, paga profumati interessi di mora e non si può sottrarre. Lo Stato si scrive una sentenza per non pagarli al contribuente, al quale ha intanto anche alzato le tasse. Una cosa da monarchie assolute, in pieno dispregio dell’elementare reciprocità di legalità che deve caratterizzare i rapporti tra Stato e cittadino. Eppure nessuno ha fatto un plissé, di fronte a una simile decisione del TAR.
Altri esempi, dal pacco quotidiano di segnalazioni da parte di lettori e ascoltatori. La Colorex di Lugo di Vicenza mi manda copia dell’atto per il quale, avendo richiesto accesso al regime di compensazione dei crediti IVA maturati nella sua attività di export, l’Agenzia delle Entrate chiede all’azienda una fidejussione a propria garanzia – dovessero risultare impropri i crediti – di 80mila euro. Inutile dirvi che oltre a essere proporzionata all’importo del credito, la richiesta di fidejussione comprende eccome anche gli interessi sul periodo relativo, al 2%. Ha senso per voi, che lo Stato chieda soldi in garanzia a coloro che maturano crediti fiscali nei suoi confronti? Datevi una risposta. E ancora. Da un’Agenzia viaggi in provincia di Modena, il cui titolare ha rateizzato 1400 euro di contravvenzioni e bolli non pagati, la fotocopia di una cartella esattoriale relativa a 12 centesimi di errore e sottostima nei pagamenti a saldo effettuati. Per la cui estinzione il contribuente dovrà versare la bellezza di 117 euro.
Ha senso un fisco così? La risposta è una sola. No, non ce l’ha
Infine, piovono sentenze come quella della commissione provinciale tributaria di Milano, che danno ragione ai contribuenti che impugnano come illegittimi gli atti di accertamento ed esecutivi sottoscritti dagli 800 dirigenti sanzionati come illegittimi dalla Corte Costrituzionale. Esattamente l’opposto della tesi sostenuta dalla direttrice di AgEntrate Orlandi, per la quale è “vergognoso” anche solo pensar a impugnative di atti firmati da quei dirigenti, “perché i cittadini perderanno i loro soldi”. Un tono e un argomento incommentabile, da satrapìe dell’antico impero persiano.
Ha senso un fisco così? La risposta è una sola. No, non ce l’ha. Finché continua a darsi ragione da solo, chiedendo a noi di comportarsi come lui per primo non si comporta, il fisco deve riformare se stesso prima di riformare il paese.
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