martedì 21 aprile 2015

La signora Santanchè ha dimenticato i morti nel deserto o nei campi organizzati dal dittatore libico sotto il sole con i migranti dentro case in lamiera bollente?

Migranti, don Mussie Zerai contro Santanchè

Per la Pitonessa il raìs garantiva ordine. Don Mussie Zerai: «Abbiamo denunciato violenze e torture in galera. Con lui l'Europa era sotto ricatto».

21 Aprile 2015
Si stava meglio quando c'era lui. Inteso il Colonnello Gheddafi.
Daniela Santanché ha commentato così l'ennesima tragedia di migranti nel Mediterraneo. «Era meglio tenere il rais al potere, pur essendo un dittatore. Con lui non c'erano più gli sbarchi. Ricordiamo che quelle famose primavere arabe si sono trasformate in un gelido inverno», ha detto la forzista chiarendo, come se ce ne fosse il bisogno: «Ho detto 'affondiamo tutti i barconi', ovviamente senza la gente».
DON ZERAI: «PRIMA DI PARLARE SI INFORMINO... ». Politici come Santanché «prima di parlare dovrebbero andare sul posto o avere la bontà di ascoltare le testimonianze delle donne che sono state ripetutamente violentate dai militari nelle carceri di Gheddafi fino a perdere coscienza». A dirlo è don Mussie Zerai.
Eritreo, Zerai riparò 17enne in Italia nel 1992 come rifugiato politico. Fondatore e presidente dell’agenzia Habeshia, il sacerdote è stato candidato al Nobel per la Pace dall'istituto di ricerca internazionale di pace di Oslo.
LA DENUNCIA CONTRO GHEDDAFI. «Abbiamo sempre denunciato le condizioni terribili dei centri di detenzione libici», spiega a Lettera43.it. «Le persone venivano abusate, maltrattate, violentate dai militari che addirittura si facevano pagare per farle scappare».



  • Don Mussie Zerai.

DOMANDA. Eppure per Santanché quella era una condizione migliore...
RISPOSTA. Politici come Santanché, prima di parlare, dovrebbero andare sul luogo o ascoltare le testimonianze degli ex prigionieri. Voglio vedere se poi restano della stessa idea.
D. Le condizioni nelle carceri libiche erano risapute. Ma questo non impedì all'Italia di firmare accordi anti-immigrazione con la Libia.
R. Gheddafi usava i migranti come arma di ricatto nei confronti dell'Europa. Il ragionamento era: «Se non mi date ciò che voglio li libero e li lascio arrivare sulle vostre coste». Così l'Europa correva a pagare il dittatore.
D. I flussi migratori erano inferiori?
R. I migranti arrivavano lo stesso, anche sotto Gheddafi. Magari non con questi numeri.
D. Numeri che dipendono anche dai jihadisti...
R. Certamente, oggi c'è il Califfato. Soprattutto per i cristiani la Libia non è certo un posto sicuro. Non importa se si è siriani, eritrei, etiopi. Si fugge dalle atrocità, dalla possibilità di finire sgozzati come capre.
D. L'Europa e l'Italia non hanno idee molto chiare su come gestire quella che è ancora considerata una emergenza.
R. L'unica soluzione è agire sul posto, l'ho ripetuto anche in occasione di una mia recente visita a Bruxelles. Si deve agire su tre livelli.
D. E cioè?
R. Il primo è andare nei Paesi di origine dei migranti e mettere in atto tutte le pressioni politiche, diplomatiche ed economiche per cambiare la situazione.
D. Non è una risposta in tempi brevi.
R. Certo che non è realizzabile dall'oggi al domani, ma bisogna cominciare a farlo.
D. Il secondo livello?
R. È necessario garantire a queste persone una vita dignitosa nei Paesi limitrofi. Non volano in Libia, durante la loro fuga attraversano molti Stati. Se trovassero condizioni accettabili e la possibilità di realizzare un minimo i loro sogni, il 50% dei migranti si fermerebbe.
D. Si tratta di un'area non facile da controllare.
R. Senza dubbio, ma bisogna agire anche su questo versante. Si prenda per esempio il Sudan, attraversato da molti eritrei ed etiopi. Tra il 2009 e il 2012 abbiamo denunciato un traffico di esseri umani che venivano rapiti dai campi profughi e venduti come schiavi nel Sinai. Logico che cerchino mete più sicure.
D. A quali Paesi pensa?
R. All'Etiopia fino all'Uganda e al Kenya. Si possono offrire borse di studio e di lavoro, aiutare a mettere in piedi qualche attività almeno finché io profughi non possano tornare nel loro Paese d'origine.
D. Invece arrivano in Libia.
R. Che è fuori controllo. A quel punto l'unico posto a cui guardare è l'Europa.
D. Qual è il terzo livello d'azione?
R. Per i più vulnerabili, penso ai perseguitati per motivi politici, religiosi o etnici si deve organizzare un sistema di protezione, un resettlement program.
D. Cioè?
R. Un programma di reinsediamento nei Paesi europei. Non solo per loro ma anche per i familiari.
D. Quindi occorre potenziare i ricongiungimenti?
R. Se non vogliamo donne e bambini sui barconi sì. L'Italia però è la prima ad aver bloccato centinaia di persone che avevano fatto richiesta per il ricongiungimento. Anche se avevano il nulla osta del ministero degli Interni, la Farnesina ha trovato mille cavilli per non concedere i visti.
D. Però i visti si concendono a scafisti che organizzano i loro business dai Cara come quello di Mineo.
R. Putroppo non mi stupisce, visto com'era gestito il Cara di Mineo. Un pentolone scoperchiato dall'inchiesta Mafia capitale.
D. In Europa c'è chi propone di allestire campi profughi nel Nord Africa per vagliare i vari richiedenti asilo. Cosa ne pensa?
R. Non credo a una parola. Se l'attesa nei Cara arriva fino a 8 mesi, in questi campi si dilata.
D. Perché?
R. Esistono già campi profughi nell'area. Nel Nord dell'Etiopia ci sono 80 mila rifugiati eritrei che sono fermi lì da 10 anni. In Sudan ci sono persone ferme in un campo da 30 anni. Tutti aspettano il reinsediamento. E L'Europa che ha fatto? È mai andata a controllare chi aveva effettivamente diritto a un visto o chi aveva bisogno di aiuto?
D. Ma c'è una via d'uscita?
R. Per rispondere posso raccontare un aneddoto. Nell'ottobre 2014, per l'anniversario della tragedia di Lampedusa, avevo avvicinato Federica Mogherini, allora ministro degli Esteri.
D. E cosa le disse?
R. Le chiesi un visto umanitario per tre ragazzi feriti in Libia. Le milizie avevano aperto il fuoco contro il camioncino su cui viaggiavano. Di questi c'era una ragazza paralizzata. Gli altri erano gravissimi.
D. E com'è finita?
R. Il ministro mi disse che se ne sarebbe occupata. Sta di fatto che dopo sei mesi i tre ragazzi sono arrivati sì in Italia per farsi curare, ma a bordo di un barcone. Nessuno ha concesso loro il visto per motivi umanitari, nonostante fossero stati colpiti durante la migrazione. Davanti a episodi così mi chiedo una cosa...
D. Cosa?
R. Se non siamo in grado di concedere un visto umanitario per casi così disperati, figurarsi che valore hanno le chiacchiere che stanno facendo sulla riapertura dei campi profughi in Nord Africa. Non credo a una parola.

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