sabato 20 maggio 2017

Ci sono i filo governativi e ci sono i filo Grillo. Dove mettete Travaglio?

Il travaglismo malattia infantile del giornalismo

Giornalisti
Marco Travaglio durante la XXVII edizione del Salone Internazionale del Libro al Lingotto, Torino,12 Maggio 2014.
ANSA/ ALESSANDRO DI MARCO
Emerge la sostanza reazionaria del direttore del Fatto quotidiano
 
Lo “scoop” gli ha dato alla testa. Il Fatto sta diventando preda di un misto di parossismo, mania di persecuzione, fanatismo, arroganza e presunzione che non è esattamente un cocktail degno di serio strumento d’informazione. Ed è un peccato. Perché tra l’altro questa bevanda malefica conduce aduna regressione all’infanzia, al piagnisteo, al considerarsi vittime dei bambini più grandi. E così un giornale di battaglia sta diventando un distillato di nevrastenia. Un manualetto di liste di proscrizione, di fotografie dei “cattivi”, di propaganda anche un pochino volgarotta e guardona. Peccato – ancora una volta- perché non gli mancano giornalisti colti, intelligenti, purtroppo sovrastati dai famosi “segugi”, quelli degli “scoop”.
E’ un peccato, perché qui pensiamo che il giornalismo di battaglia, quello che non si riduce a fare gli scherzetti telefonici e le pernacchie, è un bel giornalismo. E che il giornalismo deve “prendere parte” in nome di quelli che si ritengono gli interessi dei cittadini e del Paese. Pensiamo che la dialettica, e la polemica, fra giornali e giornalisti sia un un elemento di vivacità intellettuale e di democrazia.
Ma qui più che di vivacità di tratta di sputtanamento. All’analisi è stato sostituito lo sberleffo. Parafrasando Lenin, l’estremismo di Travaglio è la malattia infantile del giornalismo.
Il problema è che il direttore e i suoi colleghi (che in questi giorni sono tutti su di giri, come punti dalla tarantola travagliesca che inocula evidentemente il liquido dell’arroganza) stanno dimostrando come mai prima d’ora la sostanza reazionaria del loro pensiero.
Travaglio è l’ultimo rampollo di una ideologia paurosamente antimoderna, autoritaria, antilibertaria. Nel suo mondo non c’è spazio per la pluralità delle idee, non c’è l’aria della libertà. E’ una cultura che promana dalla peggiore interpretazione del giacobinismo che intimamamente esclude il gioco fra fazioni diverse, il pluralismo e la tolleranza. C’erano solo loro, i giacobini, in nome e per contro del Popolo. Tutto si poteva fare, con quel mandato popolare (presunto). Sta quila radice del totalitarismo contemporaneo.
Non c’è democrazia, nel cielo del Fatto. Solo sospetti, inquisizione, denigrazioni, complotti. “Tutti possono essere intercettati”, ha detto Travaglio in un dibattito televisivo dov’ero presente. Come nella Germania Est de Le vite degli altri, dove lo spione della famigerata Stasi ascoltava tutti. E in effetti il direttore del Fatto non avrebbe sfigurato negli anni bui del Terrore staliniano, “quadro” della Gpu, pronto a mettere in croce non i dissidenti ma quelli che – forse! – erano amici o parenti di possibili dissidenti… Lo Stato di Travaglio – e del suo faro morale Piercamillo Davigo– è lo Stato dell’ordine, della disciplina e dei codici. Non c’è speranza, non c’è salvezza. Una Repubblica Giudiziaria inquietante, uno Stato etico dei Gran Sacerdoti della morale di regime.
Nel travaglismo c’è dunque molto di culturale – giacobinismo, Restaurazione, stalinismo – equalcosa di religioso – la Missione mistica di ripulire il mondo che egli si è autoassegnato e che alimenta a dismisura la sua vis polemica. E c’è – legittimamente – qualcosa di più prosaico, vendere copie, vendere libri… La Chiesa ha bisogno di carburante, no?
Sotto quest’ultimo aspetto Travaglio è stato bravo. Il Fatto è un giornale con buoni guadagni, dicono loro; il sito (diretto dal “rivale” Peter Gomez – un ben diverso approccio alla realtà, un altro spessore) va benissimo; pubblicazioni, libri, spettacoli, corsi; è un ottimo network con addentellati con la rete di Cairo (una bella rete, sia chiaro) e qualche influenza sui alcuni giornalisti: tutto bene, tutto lecito. Non è chiarissimo se gli riuscirà la “connection” politico-culturale con il M5S: l’impressione è che Travaglio non abbia voglia di imbarcarsi direttamente in politica, o forse è Grillo che non lo vuole fra i piedi, non sapremmo dire.
Sul grande “scoop” di Marco Lillo (non si capisce perché egli sia così eccitato in questi giorni, consiglieremmo maggiore aplomb anche se si comprende lo stress di vendere il libro: si è portato le copie persino in sala stampa al Foro Italico per gli Internazionali di tennis, su…) diciamo qui poche cose.
Di per sé non è un attacco alla democrazia: non è piazza Fontana o la P2. E’ piuttosto un attacco politico, come ci siamo permessi di dire davanti a Travaglio, e lui si è offeso. Un attacco politico a base di brogliacci, mezze rivelazioni, ma non è questo il punto. I giornalisti pubblicano quello che ritengono giusto pubblicare; il problema vero è che la magistratura è diventata un colabrodo, nel senso che pezzi di magistratura passano a giornali amici quello che vogliono in un circuito interessato e velenoso: politico, appunto.
Difficile (impossibile?) trovare rimedi. E’ possibile che la Storia dia ragione a Travaglio quando dice che nell’era di Internet come si fa a bloccare il flusso delle notizie. In attesa del verdetto finale, però, la legge andrebbe applicata. Soprattutto, ripetiamo, da chi amministra la legge, la magistratura.
Intanto i giorni dello “scoop” si vanno esaurendo – la gente in fondo ha altro da fare e la politica pure – e trascolorano in un mezzo disastro per i nostri eroi.
L‘inchiesta Consip – boh – vedremo come va a finire ma non sembra che siamo in presenza dell’Affaire Dreyfus che mutò il volto della Francia. I magistrati amici del Fatto sono oggetto di un’inchiesta. Il Csm è preoccupato. E dal punto di vista dei giornali, l’isolamento di Travaglio è evidente: e non perché ci sia il regime ma perché, ancora una volta, le grida manzoniane del direttore non sembrano supportate dalla realtà dei fatti. Coma sempre, c’è sempre qualcosa che non quadra, nelle sue campagne.
Qualche esempio al volo. Il caso di Vasco Errani. Il Fatto vi dedica pagine e pagine e nel novembre 2013 arriva addirittura a scrivere “10 buoni motivi per dimettersi”. Lui si dimette. Alla fine, Errani è assolto..
Ilaria Capua: Il Fatto nel 2014 intitola “Parlamento, commissioni a delinquere: 1 poltrona su 10 a condannati e indagati” e “Insegnanti, le oziosità di Ilaria Capua e i vecchi ritornelli”. Lei si dimette. Risultato finale: archiviata.
Raffaella Paita, siamo al 2015 ed ecco che il giornale di Travaglio scrive: “Regionali 2015, il sistema Paita delle erogazioni liberali che piace alle aziende”, oppure “Renzi e Bagnasco resteranno invischiati nella vicenda Paita?”. Lei perde le elezioni regionali in Liguria, anche a causa di questa vicenda. Risultato: assolta.
Pierluigi Boschi, il padre dell’ex ministra per le riforme sembra al Fatto proprietario di Banca Etruria, tanto da titolare: “Banca Etruria, il tesoro di Pierluigi Boschi che rischia di essere pignorato”. Dopo articoli e articoli diffamatori arrivano anche a scrivere: “Pierluigi Boschi, il socio legato alla ‘ndrangheta e le accuse (archiviate) di turbativa d’asta ed estorsione”. Risultato: archiviato.
Federica Guidi, l’ex ministra viene intercettata e tutto viene pubblicato sul quotidiano. Titolo: “Federica Guidi, storia dell’emendamento a favore di Tempa Rossa” e poi Governo Renzi, tutti i conflitti di interessi del neo-ministro”, nel 2016 “Federica Guidi, un altro esempio di politica interessata solo a se stessa”. Risultato: archiviata.
Beppe Sala: a dicembre 2016 “Giuseppe Sala indagato, i fatti erano noti. Perché candidarlo?”. Addirittura a gennaio si lamentano con Repubblica e Corriere che avrebbero messo la notizia in un “boxino” invece che in prima pagina. Lui si autosospende. Risultato: archiviato.
Per non parlare di Vincenzo De LucaStefano GrazianoFederico Pizzarotti e tanti altri, tutti archiviati e/o assolti. E la notizia dell’assoluzione di Renato Soru nascosta a pagina 20, dalle parti dei programmi televisivi.
Diciamo che sono tutti infortuni del mestiere. Nulla di eversivo. Finora, almeno.

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