sabato 21 settembre 2013

Riceviamo e pubblichiamo

Il mito della stabilità

Le tre subalternità che governano l’Italia

Salvatore Merlo
Nessuno appare padrone delle proprie azioni né del destino del Paese, tanto meno chi lo governa


(Timothy A. Clary/Afp)
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È la subalternità la cifra immateriale della grande coalizione, lo spirito del tempo che avvolge, caratterizza e determina i rapporti tra il Pd e il Pdl, tra la maggioranza e l’opposizione, tra Silvio Berlusconi e Giorgio Napolitano, tra Matteo Renzi ed Enrico Letta, tra l’Italia e l’Europa, il principio astratto che agita le baruffe parlamentari senza orizzonte, l’alterno accordarsi e scornarsi del ceto politico in un gioco infinito e senza soluzione.

Così il Pdl, il suo personale politico e i suoi ministri, sono tutti subalterni alla volontà e agli umori mutevoli del Cavaliere di Arcore; proprio come il Partito democratico, e i suoi troppi signori della guerra, correggono e modificano la loro posizione sul confuso scacchiere del governo a seconda delle novità, e delle convenienze che di volta in volta si affacciano sul sanguinoso proscenio del loro congresso, subalterni come sono, tutti loro, ai rovesci e alle vittorie della lunga guerra che contrappone Renzi ai suoi nemici post-comunisti. E dunque un giorno è la crisi e poi è la pace, un giorno è la stabilità ad accendere ogni cuore politico d’Italia, un altro è invece l’urgenza delle elezioni. Ma non c’è davvero logica, né coerenza, in questo minuetto che impegna più le televisioni e i giornali che il Parlamento, il rito stanco dei talk show, la rissa nelle gabbie e nelle arene televisive.

Gli uomini dell’Italia politica si immergono in questo dibattito estenuante come i personaggi d’una commedia degli equivoci, ciascuno pronto a cambiare ruolo, volto e maschera. «Un voto contro Berlusconi in giunta sarebbe come una camera a gas», diceva qualche giorno fa Renato Schifani, il capogruppo del Pdl in Senato, fedele a quel pregiudizio mediterraneo secondo cui l’interiezione e l’enfasi – “camera a gas” – aggiungono alle parole non solo opulenza ma credito. Eppure qualche giorno dopo, lo stesso Schifani, ha dichiarato che anche qualora il Cavaliere fosse espulso dal Senato, quel voto «sarebbe irrilevante». Possibile? Sì. Ed è una prammatica senza deroghe che torna a celebrarsi ogni ventiquattr’ore. Ciascuno degli uomini del Pdl, dentro e fuori del governo, insegue la scia degli umori di Berlusconi, il Cavaliere che spesso cambia idea, pencola, oscilla sempre incerto sul da farsi: rompere o non rompere l’architettura di Giorgio Napolitano?

E loro, i cortigiani di Arcore, ne interpretano le contrazioni muscolari, coccolano ciascuno dei contraddittori umori del Sovrano, agitandosi in un teatro che finisce con l’umiliarli. Come s’umiliano anche gli uomini del Pd, Pier Luigi Bersani e Guglielmo Epifani, Massimo D’Alema e Piero Fassino. Fateci caso, non appena sembra possibile un accordo di spartizione con l’arrembante Matteo Renzi – “a noi il partito a te Palazzo Chigi” – allora la vecchia guardia del Pds appare d’un tratto disposta ad assecondare i venti di crisi, a rovesciare il tavolo, e con esso anche Enrico Letta e l’intero Palazzo del Quirinale, d’improvviso scoprono che Berlusconi ha il conflitto d’interessi, è un condannato, è una pietanza indigesta; e tutti corrono da Renzi, persino Fassino siede umile a terra,  per ascoltarlo con la diligenza d’uno scolaro. Ma all’improvviso, quando il faccione tondo del ragazzino di Firenze si gonfia in una pernacchia a loro rivolta, «io mi prendo il partito e anche Palazzo Chigi», ecco che quello stesso Epifani prima disposto a maneggiare incautamente la parola “crisi”, ritorna invece cauto e carezzevole con il governo e il suo capo, prudente, malgrado Berlusconi, malgrado le nozze col diavolo; persino Fassino s’alza in piedi e se ne va. E insomma non esiste libertà d’azione nel dibattito falso e involuto, ma tutto s’attorciglia comprimendo la fantasia di ciascuno e anche gli spazi per manovre alternative, per orizzonti, chissà, sorprendenti, quelle idee che sempre salvano i Paesi dalla stagnazione, che non è mai soltanto economica ma sempre sociale e culturale. Si può morire a rate, o librarsi in volo con un balzo a nervi tesi. È in definitiva la subalternità lo spirito del tempo, la torpida forza decisa a trattenere l’intera legislatura soffiando il suo alito ottundente su ciascuna delle spire di questo caos calmo che in Italia chiamiamo politica.

E così anche Enrico Letta, con il suo ministro dell’Economia Fabrizio Saccomanni, e chissà, pure Giorgio Napolitano, vivono in una logica di subalternità, a ciascuno la sua. La loro è una grammatica curva e prudente, per loro soprattutto vale l’Europa, il vincolo di bilancio, l’establishment bancario con i suoi traballanti interessi. Il governo s’appresta ad avviare le dismissioni del patrimonio pubblico, la proprietà di alcune grandi aziende passerà di mano, e le privatizzazioni interessano le banche d’affari, quella trama di potere finanziario che per sua natura in Italia non intraprende, non rischia, non produce nulla, ma possiede ogni cosa, a cominciare dai giornali. «Stabilità, stabilità, stabilità», ripete l’establishment. E se la ripresa non arriva, dipende infatti “dalle minacce d’instabilità”, dice Enrico Letta, ed è ormai una cantilena nasale che svela un principio ossessivamente coltivato, una subalternità appunto, ma del presidente del Consiglio al sistema bancario che annaspa e agli interesse sovranazionali che tentano di regolare alla meglio la rotazione del mondo in crisi. E c’è dunque Mario Draghi assiso sul trono della Bce, Angela Merkel che osserva severa, ci sono gli istituti di credito italiani in difficoltà, e un diffuso – profondissimo – interesse alla fissità di governo, al pantano persino, se necessario; stabilità a ogni costo, anche se il prezzo fosse l’inerzia assoluta e la palude totale: oggi un solo punto di spread in più, per le piccole banche d’Italia, significa una fontana di milioni pronti a scivolare fuori da già precari bilanci. E dunque è nell’affermarsi del principio di subalternità che si consuma lo spasmo finale della seconda repubblica, nessuno appare fino in fondo padrone delle proprie azioni né del destino del Paese che pure governa. E l’attesa della morte è una noia come un’altra.



Leggi il resto: http://www.linkiesta.it/subalternita#ixzz2fYJwEtg6

1 commento:

Unknown ha detto...

Lettura interessante

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