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Sei astrofisiche, tutte italiane, formano un team di "archeologhe delle stelle" che ha attirato l'attenzione della Nasa. Cinque di loro hanno un contratto da "precaria della ricerca" e tre di loro non hanno ancora compiuto 30 anni. Il loro studio sui buchi neri dell'Universo primordiale è stato pubblicato a gennaio sul Monthly notices of royal astronomical society. Edwige Pezzulli, Rosa Valiante, Maria Orofino, Raffaella Schneider, Simona Gallerani e Tullia Sbarrato, così tante scienziate, tutte insieme, che firmano una ricerca così importante: anche per la Nasa è una cosa nuova. L'Agenzia spaziale americana ha deciso di pubblicare una "press release" e invitare una delle studiose a collaborare al blog, per raccontare cosa è successo nei primi milioni di anni dopo il Big bang.

Edwige, Raffaella e Rosa fanno parte del team di First, finanziato dallo European Research Council, che studia la formazione di stelle e galassie quando l'Universo era appena nato. L'indagine che, assieme alla storia di una squadra tutta al femminile, ha "conquistato" la Nasa è uno dei frutti di questo progetto. La loro non è stata forse una rivoluzione, come quella raccontata nel film Il diritto di contare, la storia di tre donne afroamericane che hanno conquistato un ruolo di grande responsabilità nella Nasa negli anni 60. Ma è comunque un grande riconoscimento per la ricerca italiana al femminile.

Delle sei, solo Raffaella non è "in scadenza", perché è professoressa associata alla Sapienza. A inizio carriera, più di 20 anni fa, è stata in qualche modo una pioniera: "Ho avuto il primo figlio durante il dottorato, era il 1996. Fui la prima in Italia a poter congelare la borsa per un anno per la maternità. Si poteva fare per il servizio militare ma non era previsto per una ricercatrice mamma".

Edwige Pezzulli, 29 anni, è dottoranda presso la Sapienza, Istituto nazionale di astrofisica e Tor Vergata. Ma nella sua storia controcorrente c'è un anche passato da thai boxer e rugbista a Roma nelle All Reds e nelle Red and Blue di Valmontone.

Rosa, 38 anni, ha lavorato tenendo in braccio la sua bambina. Aurora è nata un anno e mezzo fa: "Nelle notti e nei weekend di lavoro, quelli decisive prima dell'uscita dello studio, mi si addormentava in braccio, così scrivevo e rispondevo a mail e chat con le colleghe usando una mano sola - racconta - ma questo impegno è ripagato: proprio grazie al progetto First ho avuto il rinnovo del contratto per un altro anno".

Alle teoriche di First, che studiano modelli, si sono aggiunte le conoscenze sperimentali delle colleghe Maria Orofino e Simona Gallerani della Scuola Normale superiore di Pisa e Tullia Sbarrato del dipartimento di Fisica all'Università di Milano Bicocca, per interpretare i dati delle osservazioni. "Solo al momento di inviare il lavoro ci siamo accorte che le firme erano tutte quante di donne. Non ci avevamo fatto nemmeno caso" commenta sorridendo Raffaella Schneider, che è principal investigator del progetto First. "Vent'anni fa mi capitava di andare a convegni nei quali le donne si potevano contare sulle dita di una mano. Ora è molto diverso".

E sulla "eccezionalità" del loro team di archeologhe delle stelle anche Edwige ha un'idea chiara: "Sono convinta che la chiave del progresso risieda nella diversità e nel confronto tra più punti di vista. Non solo differenza di genere, dunque, ma anche occhi e culture diversi. In questo senso abbiamo portato la sguardo femminile su un problema sempre affrontato da uomini".

Per il loro studio sono partite da un quasar (una sorgente molto lontana e luminosa associata ai buchi neri), a 13 miliardi di anni luce da noi, per risalire ai suoi "progenitori", come per tracciarne l'albero genealogico. I "black holes" primordiali, appunto, che però sembrano non essere dove dovrebbero. "Abbiamo usato le osservazioni dello Sloan digital sky survey e del telescopio spaziale Chandra per osservare le attività di buchi neri quando l'Universo aveva meno di 800 milioni di anni - spiega Edwige Pezzulli - guardando lontano infatti è come se guardassimo indietro nel tempo". Le sei ricercatrici hanno così spiegato una dinamica fondamentale su cosa succedeva poco tempo dopo il Big bang e perché è tanto difficile
scoprire quei buchi nello spazio-tempo formatisi quando l'Universo era ancora giovanissimo: "Non riusciamo a vederli perché il loro accrescimento, il periodo in cui aumentano di dimensioni divorando materia ed emettendo radiazioni, è molto rapido e si spegne in fretta".