Una recita triste e senza più slancio
Il “discorso di fine anno” di Beppe Grillo è apparso ormai alla stregua di un qualsiasi cinepanettone, un film già visto, che si ripete stancamente anno dopo anno con un seguito sempre minore e una “sceneggiatura” sempre più sbrindellata.
Per un comico, il successo di pubblico è fondamentale. Per un politico, quello della critica è decisivo. Beppe Grillo a Capodanno non ha avuto né l’uno né l’altro. Il suo “discorso di fine anno” è apparso ormai alla stregua di un qualsiasi cinepanettone, un film già visto, che si ripete stancamente anno dopo anno con un seguito sempre minore e una “sceneggiatura” sempre più sbrindellata. Questa volta Beppe si è inventato l’immagine dell’ologramma per parlare di un Paese che non esiste, di un governo che non esiste, di un Parlamento che non esiste (saranno contenti Di Maio e Di Battista), con il Capo dello Stato che è addirittura l’ologramma di un ologramma: una robetta che non ha fatto ridere nessuno, ma ha solo rimandato l’immagine di un capo solo con se stesso e le proprie fobìe.
Messaggio sfocato di un comico con la testa alla imminente tournée, prigioniero delle sue fissazioni. Sfocato e intollerante insieme: un capolavoro. Ma forse l’ultima botta stalinista di Grillo, l’espulsione del sindaco di Gela, nella storia del grillismo sarà un turning point, uno di quei spartiacque magari invisibili a occhio nudo ma che spesso nella storia scavano un fossato fra un prima e un dopo. Cacciare le persone con quei comunicati da Terza Internazionale comincia a essere insopportabile anche per chi ha simpatia per i Cinquestelle. In pochi giorni, prima hanno mandato in Siberia la senatrice Fucksia con la scusa di non essere in regola coi pagamenti – nemmeno un amministratore di condominio è così burocraticamente inflessibile – e poi è stata la volta di Donato Messinese, il sindaco di Gela, espulso anche lui senza tanti riguardi per questioni che altrove si sarebbero discusse politicamente.
Altro che ologramma, la verità è che viene avanti il volto intimamente autoritario del grillismo cancellando con i fatti le presunte istanze libertarie e egualitarie (“uno vale uno”) che pure avevano avuto tanta parte dell’appeal grillesco specie presso i giovani. Si vedrà quanto questa torsione intollerante del grillismo sia collegabile agli evidenti insuccessi del Movimento alla prova del governo nelle città: c’è un nesso fra le due cose? Di certo colpisce la contemporaneità dell’escalation autoritaria e il fallimento a Livorno, Ragusa, Civitavecchia, Pomezia, Quarto, Gela, forse Parma (chi volesse saperne di più non ha che da visitare il sito www.unità.tv, c’è tutto lì), tutti luoghi dove la lotteria del blog ha partorito candidati chiaramente non in grado di amministrare la cosa pubblica. Questa è la verità, semplice semplice: il Movimento 5 stelle, per come è stato concepito e diretto dal comico e dal guru non è nemmeno lontanamente spendibile sul piano del governo: dopo due anni, è talmente chiaro che se n’è accorto l’unico leader politico di qualità di quel mondo, Marco Travaglio, che nell’ultimo editoriale sul Fatto del 2015 ha colpito al cuore il grillocasaleggismo, e cioè l’assunto falsamente democratico dell’ “uno vale uno”, gettando nella spazzatura il meccanismo dei “bussolotti del web” col quale escono candidati improbabili che, alla prova del governo, falliscono miseramente – e vengono cacciati con una qualche scusa. «Diventate un partito normale che selezioni la classe dirigente con criteri che non siano quelli delle finte consultazioni online», sembra voler dire Travaglio, ormai segretario del partito e direttore del suo organo, come fu Palmiro Togliatti. In teoria, stavolta il direttore-segretario non ha tutti i torti: il problema è che chiedere a Grillo di scendere dal palco per stare sul terreno di una politica democratica e di governo appartiene al regno delle nuvole. Può darsi che gli italiani se ne stiano rendendo conto: i sondaggi veri dicono questo. Altro che ologrammi.
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