domenica 24 gennaio 2016

Family Day: il Consiglio direttivo della Cei spaccato come una direzione del Pd qualsiasi

 01/24/2016 01:08 pm ET
  • Piero Schiavazzi, l'Huffington Post
AGF
Più che un “Family” a questo punto si annuncia un “D” DAY. Una conta e una resa dei conti. Tra la Chiesa e le sue diverse anime, all’interno. E tra i vescovi e l’universo arcobaleno, all’esterno. Passando dalla mediazione diplomatica e trasversale a una discussione dialettica e frontale, senza ombrelli e triangolazioni di sorta: “Il dialogo con le istituzioni è un compito vostro e non è facile”.
Già, non è facile. Con tre anni di ritardo sulla sterzata, e strigliata, di Bergoglio, del 23 maggio 2013, la CEI misura il guado e intraprende il pellegrinaggio più arduo della sua storia, mentre il Papa, nel discorso alla Rota Romana, interviene a dirimere qualsivoglia esitazione e a imprimere una ulteriore accelerazione: avanti tutta.
Il dado è tratto e non ci si può tirare indietro. Dal centralismo decisionista di Ruini, autoritario eppure autorevole, al decentramento autonomista di Francesco, creativo però impulsivo, cercando nel frattempo di non perdere terreno, nell’interregno del tandem Bagnasco - Galantino. Insomma scuola guida e prove tecniche di transizione, a bordo di una vettura dai comandi doppi e nella curva, sempre più stretta, del dibattito parlamentare sulle unioni civili.
Politicamente parlando si tratta di una duplice acrobazia. Confronto in piazza e piazze a confronto. Un salto mortale che sabato 30 gennaio atterra senza rete nell’arena del Circo Massimo e corre seriamente il rischio di farsi male: come accadde lo scorso 20 giugno, quando il pittore spagnolo Kiko Argüello, carismatico capo dei neocatecumenali, sanzionò pubblicamente il segretario dei vescovi, davanti a un esercito di centomila seguaci, armati di biberon e carrozzine, scatenando all’istante un consenso entusiastico e incassando all’indomani la censura ecclesiastica, con tanto di nota ufficiale. Mai udito prima sotto il cielo di Roma.
Niente a che vedere con il debutto del 2007, quando il copione era scritto in anticipo e il lieto fine compreso nel biglietto d’invito. Questa volta il Consiglio Permanente della CEI, vale a dire lo stato maggiore, chiamato a imbastire una strategia, somiglia piuttosto a un direttivo del PD vecchia maniera, dove i verdetti restano appesi e aperti a sorprese, con ampio margine d’improvvisazione. Per il diletto dei cronisti e nel dilemma dei protagonisti, che rispondono al nome di Angelo Bagnasco da Genova e Nunzio Galantino da Cerignola.
I francesi non esiterebbero a definirla “drôle de cohabitation”, ossia una coabitazione un po’pazza: tra un presidente conservatore, che interpreta tuttavia il sentimento della base, formatasi nel verbo dei precedenti pontificati, e un segretario progressista, imposto dal Papa rivoluzionario e preposto a sovvertire i rapporti di forza, mediante una infornata di nuove nomine. Bagnasco è un ammiraglio di lungo corso, campione di gerarchie liguri che hanno raggiunto il culmine dell’egemonia nell’era di Ratzinger. Una classe dirigente che oggi rifiuta di ammainare bandiera e manifesta sorprendenti abilità manovriere. Emulo del concittadino Andrea Doria nella capacità, e disinvoltura, di tessere nuove alleanze, volgendo in suo favore gli spifferi delle sacre stanze. Figuriamoci se si tratta di una ventata come quella del discorso alla Rota: “Non può esserci confusione tra la famiglia voluta da Dio e ogni altro tipo di unione”.
Monsignor Galantino è invece un nostromo dai modi energici, saldamente insediato in plancia. Padrone ormai assoluto della sala macchine, dall’ufficio centrale ai media ecclesiali, ma non ancora dell’equipaggio, arruolato nelle liste della vecchia gestione.
Ragion per cui, memore dei suoi studi antropologici, tende a modificare non solo il profilo ideologico, ma sociologico dell’episcopato, pescando tra i parroci di periferia e facendoli promuovere nelle sedi che contano. 
Cresciuto sotto il segno dello scudo crociato, con ascendente falce e martello, da padre democristiano e nella contrada che dette i natali a Di Vittorio, il segretario CEI conduce tenace la marcia dei peones, da un capo all’altro della penisola, ridistribuendo zucchetti di eccellenza e zone d’influenza, con l’ingresso ai piani alti Corrado Lorefice e Matteo Zuppi, nuovi arcivescovi di Palermo e di Bologna, preti di strada e new entries del consiglio.
Per contro, e in risposta, l’aristocratico Bagnasco spariglia il tavolo, riscoprendosi democratico e appellandosi al laicato, dalla fanteria mobile del cammino neocatecumenale a quella immobile delle sentinelle della vita, che Galantino liquidò sbrigativo, con dalemiano sarcasmo.
“Il dialogo con le istituzioni è un compito vostro!”. L’Italia non sarà una priorità dei successori di Pietro, come in passato, ma rimane pur sempre un primato della Chiesa. Un ormeggio sicuro al quale un figlio di emigranti, navigatore degli oceani, non pensa di rinunciare, dopo il naufragio del referendum irlandese. Mentre nel fronte laico e tra i suoi profeti si sta facendo strada un dubbio amletico: che Bergoglio in fondo non sia così liberal come vuol sembrare, persino a se stesso. Sociale e socialista, dove nessun pontefice si era spinto, questo sì. Ma meno aperturista e innovatore di come viene dipinto. Che il Papa gesuita, venuto dai confini del mondo, non intenda cioè superare il confine della dottrina. Più simile a Peron che al Cardinale Martini. Pronto a disfarsi della mozzetta e a confondersi con il popolo. Descamisado tra le gente, tirando sassi alle finestre del palazzo. Ma indisponibile a spogliarsi dell’habitus fidei e a pagare il prezzo, indispensabile, del compromesso, per rivestire i costumi del nostro tempo e celebrare il connubio con la modernità. 

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