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PARIGI - "Ballo per liberarmi, ballo perché dopo una settimana come quella che si è appena conclusa non voglio sentire altro che musica". Sophie ha 33 anni, vive a Parigi. Sulle note di I feel love di Donna Summer, fasciata in un abito verde, i capelli biondi e il bicchiere alla mano, rotea insieme alle amiche al centro della pista. Si guardano e si sorridono, si tengono la mano. Sono qui, al Gambetta Club di rue Bagnolet, per festeggiare il compleanno di Marie.

Con loro un dj, di quelli alla moda, e molti invitati che non sono voluti mancare. "Ho pensato di annullare tutto - spiega la festeggiata, che di anni ne compie 42 - ma poi perché avrei dovuto rinunciarci?". Ci sono ragazzi con i baffi e il montgomery, una giapponese che beve champagne dalla bottiglia, una barista che assicura "la quantità di clienti presenti stasera è quella di un normale venerdì". Eppure non è un venerdì normale.

Parigi, il ricercatore italiano: ''Noi, generazione Bataclan: specchio del mondo occidentale''


Te lo ricordano, qualche chilometro più in là, centinaia di lumini accessi e rose sfiorite e giornalisti bagnati davanti al Bataclan. Sette giorni prima la sala concerti di boulevard Voltaire si trasformava in un grosso cimitero da 89 cadaveri. Sono da poco passate le due e mentre i bar intorno all'area perimetrata sono ancora pieni, appoggiata a un albero proprio davanti all’ingresso del Bataclan c’è una ragazza sola. Ha una lattina grande di birra in una mano e una sigaretta nell'altra, guarda la porta del locale senza mai distogliere lo sguardo e chissà quale morto piange mentre la città affronta il primo fine settimana dopo gli attacchi terroristici del 13 novembre.

C’è chi avrebbe scommesso che sarebbe stato un weekend di paura, di divani accoglienti e cene in casa, eppure quella che il quotidiano Libération ha ribattezzato "la génération Bataclan" è una generazione che non rinuncia. Alla libertà, prima di tutto. Fin troppo facile da catalogare. Per capire chi sono basterebbe scorrere l'elenco dei morti al Bataclan. Le vittime sono internazionali, ci sono italiani, cileni, americani, spagnoli; di età compresa tra i 25 e i 40 anni; svolgevano mestieri nel mondo della comunicazione, del design, dello spettacolo. Alcuni avevano dei figli, erano sposati o fidanzati. Amavano la musica, il divertimento, erano benestanti. Indossavano t-shirt bianche e alla moda. Erano belli. A volerlo trovare un filo rosso che li unisce, oltre a quello del sangue che hanno versato, ci si potrebbe provare. Ma non ditelo agli altri, a quelli che restano. A quelli che nell’XI ci vivono, ci escono e ci lavorano. I ragazzi di quella Parigi est, vitale e internazionale, godereccia e salottiera, edonista e senza dio, quell’etichetta non la vogliono. Chiamateli come volete ma questi viveur dell’XI arrondissement non si sentono una generazione a parte, non vogliono sentirsi diversi dalle vittime del terrorismo nel resto del mondo.

"Passando davanti al Bataclan mi ha colpito vedere le foto dei morti e pensare che le loro identità e le loro storie non sono più importanti di quelle delle tante vittime degli attentati nel resto del mondo che rimangono spesso senza nome e senza biografie". Ivanne è un’infermiera, cuoca e artista parigina. Quarant'anni appena compiuti e una joie de vivre da difendere. Il primo venerdì dopo gli attentati lo ha trascorso a La Générale, un collettivo di artisti di avenue Parmentier. In programma uno spettacolo teatrale e una cena. Lei non ha paura di uscire. "Noi non siamo quelli che fuggono. L'altra sera ero con un'amica a bere una birra quando improvvisamente un fiume di gente ha iniziato a correre per un falso allarme. Noi siamo rimaste ferme perché non abbiamo paura. Non vogliamo che la paura ci tolga la libertà".

Anche Sidonie, 33 anni, frequenta La Générale. Vicino a lei dorme sua figlia, tre mesi appena compiuti. "Una generazione non la fa un quartiere, solo perché è gentrificato, perché è bobo. Categorizzare non c'entra niente con quello che sta succedendo. Non mi preoccupa far crescere mia figlia a Parigi, al limite dovrebbe preoccuparmi farla crescere in questo mondo. Penso ai tanti Paesi dove si vive sempre in guerra, e penso che è lì che bisognerebbe avere paura".
 
Ed è un pensiero che ricorre quello del sentirsi tutti all'interno di una stessa storia, più che dello stesso quartiere o della stessa generazione. La pensa così anche Frédéric, 31 anni, sabato pomeriggio è a Le Barometre, a pochi metri dal Bataclan, beve una birra con degli amici. Fa il musicista, il suo locale di riferimento, quello dove va a vedere le partite di solito, è il Carillon di rue Alibert, 15 morti. "Dovevo esserci anche io quella sera ma non sono andato alla fine. Se mi sento un bersaglio? Non più di un qualsiasi altro cittadino del mondo. Quello che sento ora è soprattutto una grande tristezza e non ho paura ma certo qualcosa è cambiato". Lo dice e abbassa lo sguardo e la serenità che sembrava trasmettere fino a poco prima lascia il posto al silenzio. Non vuole continuare a parlare.

Nel frattempo a Parigi, tra crescenti allarmi che arrivano da Bruxelles, aggiornamenti su vittime ed eroi del 13 novembre, impennate nazionaliste - secondo un sondaggio de Le Parisien il 93% degli intervistati si sente legato al tricolore e il 61% pensa sia giusto esporlo - e dati in picchiata su presenze nelle sale concerti e nei teatri - per il Prodiss, sindacato produzioni musicali, le vendite dei concerti sono calate dell’80% rispetto all’anno precedente - è anche arrivato il primo freddo. Sarà per questo che le strade sono più vuote del solito, nonostante sia sabato sera, e dalle finestre si vedono molte sagome di persone intorno ai tavoli.

Anche a casa di Julie ci si ritrova. E' il compleanno di Delphine. Gli amici le hanno organizzato una festa a sorpresa: cena vietnamita, candele accese e musica da ballare. Di attacchi terroristici qui non si parla e anche solo accennare alla "génération Bataclan" fa sorridere. "Non sono mai stata al Bataclan, non seguo la musica rock. Il fatto che conosca persone che hanno avuto amici tra le vittime mi fa sentire in parte dentro a questa generazione ma non dimentichiamoci che i morti dello stadio e degli altri attentati avevano un profilo sociale ben diverso - così Emma, 28 anni, architetto in cerca del primo impiego - mi stupisce quello che sta succedendo in Francia. Io non vado a disegnare cuori in place de la République, trovo orribile mettere il tricolore sulla foto profilo Facebook. Lo fanno tutti, anche i giovani di sinistra, ma io non sono Paris, io non sono Charlie Hebdo".

Poi c'è anche l’opinione di alcuni degli italiani dell’undicesimo. "I francesi sono molto freddi, reagiscono con distacco. Io ho amici che hanno preso l’aereo il giorno dopo gli attacchi e se ne sono andati". A parlare è Alessia, 40 anni, regista e attrice di origine napoletana che vive a Parigi est da sei anni. "I bambini hanno avuto un impatto molto duro, una compagna di mio figlio, 5 anni, gli ha detto che a Parigi ci sono gli uomini che tagliano le teste e ora vuole che chiuda sempre le finestre perché teme i ladri. Io ho paura, credo che ci saranno altri attentati ma continuo a vivere e a lavorare. Con degli amici organizziamo dei concerti segreti, in casa. Il primo dopo gli attentati è stato un successo. Le persone hanno voglia di stare vicine ora, di fortificare i rapporti umani e di distrarsi anche grazie all’arte e alla cultura".

Giovanni Occhipinti, 39 anni, di origine siciliana vive a Parigi nel cuore dell’XI dal 1999, professore universitario e ricercatore all’Institut de Physique du Globe de Paris, istituto di geofisica, non tornerebbe mai a vivere in Italia. Un cervello in fuga, un'eccellenza che fa pensare a Valeria Solesin, la ricercatrice in demografia dell’Ined, istituto della Sorbona, morta nel Bataclan. "Domenica la Francia ha bombardato il califfato siriano, anche lì ci sono stati dei morti. Perché i nostri cittadini sono degli hipster cosmopoliti che approfittano della vita e i bambini che muoiono in Siria sono bambini soldato? Questo peso diverso nella bilancia crea un senso di colpa". E poi conclude: "In questi giorni percepisco un bisogno forte di ritrovarsi, di abbracciare qualcuno, di essere vicino agli altri".

Lo dice Giovanni e lo dicono tutti gli altri dell’XI incontrati in questo primo fine settimana dopo gli attacchi terroristici. Oltre le catalogazioni e le posizioni politiche, i sensi di colpa e i quartieri, i gusti musicali e l'esigenza di libertà, per tutti il 13 novembre è suonato come un campanello emotivo. Ora c'è voglia di stare insieme, di condividere. Di volersi bene. E se proprio un nome bisogna darlo a questa generazione scossa ma coraggiosa, che conta i morti e si rialza, il migliore sembrerebbe "génération amour".