sabato 28 novembre 2015

In Italia non conta proprio il merito. O si va avanti per dinastie o con una tessera di partito o con una tessera di sindacato. Al nord come al sud.

110 e lode a 28 anni non serve a nulla? Nemmeno a 21, in Italia

Poletti: «Meglio laurearsi con 97 a ventun anni». Certo, ma anche in quel caso la laurea è un investimento a perdere

THIERRY CHARLIER/AFP/Getty Images

26 Novembre 2015 - 18:46
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«Prendere 110 e lode a 28 anni non serve a un fico, è meglio prendere 97 a 21». Parole sante, quelle del ministro del lavoro Giuliano Poletti rivolte agli studenti. Peccato però, che si sia fermato lì, nella sua analisi. Perché i dati del rapporto Ocse, Education at a Glance 2015, cui Linkiesta ha dedicato un'ampio commento dell'ottimo Thomas Manfredi, raccontano qualcosa di più.
Ad esempio, che anche laurearsi con 97 a ventun anni non è che sia un grande affare, visto che il tasso di occupazione dei nostri laureati - tutti i laureati - è di venti punti più basso a quello di Francia e Germania e inferiore addirittura rispetto a quello greco. 
O, ancora, che l'Italia è uno dei pochi Paesi europei - anzi, l'unico tra i Paesi sviluppati - in cui il tasso di occupazione dei diplomati è più alto di quello dei laureati. 
O, di nuovo, uno dei pochi Paesi in cui essere giovani vuol dire avere salari quasi sicuramente più bassi rispetto a quelli di un lavoratore anziano, nonostante si ripeta a ogni convegno che oggi è più importante possedere saperi innovativi, anziché avere una grande esperienza.
Insomma, se Poletti non si fosse fermato lì, a quella piccola verità da genitore infastidito dal figlio fuoricorso, forse avrebbe compreso che il problema è anche un po' suo. Perché se in Italia avere una laurea - e tantomeno un voto alto di laurea, cosa che peraltro avviene quasi sempre: il voto medio di una laurea magistrale in Italia, Paese di geni, evidentemente, è di 107,5 - non vale nulla, è colpa anche di un mercato del lavoro che non premia la conoscenza. Che attrae soltanto figure sotto-istruite e sotto-qualificate. Che dà scarso peso e altrettanta importanza ai saperi innovativi. E che quando glieli dà, li sottopaga.
Probabilmente ha ragione, ministro Poletti. I giovani italiani sono dei bamboccioni che amano i libri e rifuggono quanto più possibile il lavoro. Però, d'altro canto, è anche vero che - a torto o a ragione - il mercato del lavoro che rifugge quanto più possibile i laureati. E questo non è un problema dei fuoricorso, ma di chi governa il Paese.

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