martedì 15 novembre 2016

Vasco: «Renzi è l’ultima speranza
per la sinistra italiana»

Il rocker alla viglia del tour che lo porterà negli stadi. Debutto l’8 giugno a Bari.

di Andrea Laffranchi

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I colpi sui finestrini del van fanno paura. Che poi Vasco sia lì dentro o viaggi nella vettura che segue poco importa. Ai fan che lo inseguono nel traffico impazzito da Salone del Mobile di Milano basta immaginare di aver incrociato il suo sguardo dietro i vetri oscurati. Una ragazza in lacrime blocca la strada e ci vuole un addetto alla sicurezza per spostarla di peso. Istantanee di ordinaria follia. Si avvicina il tour negli stadi (14 date, partenza il 7 giugno da Bari, raddoppio a S.Siro e in alte città e un ritorno a Napoli dopo 11 anni) e il rocker va a raccontarsi nelle radio. «Sarà un tour che conferma la direzione heavy presa nel 2014», annuncia. Radio2 con Giovanni Veronesi lo va a trovare in albergo, Linus e Nicola Savino lo ospitano a Deejay, Paola Gallo gli fa trovare 200 fan nell’auditorium di Radio Italia, Petra Loreggian lo incontra a Rds.
Fuga a Los Angeles
I fan non passano oltre le linee della sicurezza, ma ovunque ci sono pile di cartoline e dischi da autografare, selfie da scattare (li fanno anche i cameramen nelle pause pubblicitarie) e racconti di vita come quello di Michela che al collo ha un pendente, regalo di mamma, con un Vasco versione cartoon. Per forza che poi uno scappa a Los Angeles: «In Italia non posso stare solo, giro sempre con Vasco Rossi. È straordinario, ma alla fine è complicato anche andare a comprare una maglietta».
Il giudizio su Renzi
La sua non è la fuga facile di chi ha perso fiducia nell’Italia ma ha le spalle coperte. «Siamo un bellissimo Paese di sole e cultura. Dovremmo essere orgogliosi di questo e smetterla di misurarci con quello che non siamo e di confrontarci con il Nord Europa dove tutto funziona bene». Un ottimismo quasi renziano. Tempo fa disse che il premier era una speranza. «Adesso dico che è l’ultima speranza per la sinistra. È giovane e ha energia. Ma il voto, diceva mio nonno, è segreto. Preferisco non occuparmi di politica. Quella affronta i problemi, la musica deve portare gioia», dice lontano dai microfoni. Renzi ha rottamato la politica: se arrivasse qualcuno che vuole fare lo stesso con Vasco e il «vecchio» rock? «Che si faccia sotto... Non basta diventare ricchi cantando in un microfono, un musicista deve vivere su un palco», ridacchia. 
«Fibra non mi ha offeso»
Lui riempie gli stadi, l’album «Sono innocente» è cinque volte disco di platino, ma il genere non sembra godere di ottima salute. «Il rock sta bene e non morirà mai. Anche se l’espressione di oggi, soprattutto fra i giovani, è l’hip hop. Lo dico scherzando, ma il primo rap della storia è “Fegato spappolato”. Comunque a me i rapper piacciono: Marracash è il mio preferito e stimo anche J-Ax e Fibra». Sì, anche quel Fabri Fibra che i suoi fan hanno preso di mira sui social perché nelle rime di «Come Vasco» immagina la vita del Komandante fra alberghi di lusso e stadi riempiti schiacciando un tasto. «Non mi sono offeso, non ha detto che Vasco è un pirla. Anzi, la canzone mi è piaciuta, l’ho presa come un omaggio. Quel tasto, infatti, non è così facile da trovare». Risponde anche a chi gli chiede del Papa: «Vuole portare la Chiesa sulla strada della semplicità e della povertà ma non ce la farà... La Chiesa costa... Però è simpatico e ha dato un’impronta nuova».
Freud e la morte
Vasco prende fiato. Sul tragitto tra una radio e l’altra cita Freud e le sue teorie sul senso di colpa per spiegare l’ultimo singolo «Sono innocente ma...»: «Ci fosse una pastiglia contro il senso di colpa avrei risolto i miei problemi. La musica è la mia autoanalisi e sarà così fino a che non tirerò le cuoia». Quelli del suo staff fanno scongiuri. «Mi sono sentito morto già due volte. La prima nel 1984 con l’arresto (detenzione di droga, ndr): 22 giorni di carcere di cui 5 in isolamento: la carcerazione preventiva è una vergogna. Sono risorto superando l’idea che potevo vivere solo da rockstar, andando al massimo ma anche a rotoli. Ci ho messo un anno a disintossicarmi da sostanze e farmaci». C’è stato un secondo faccia a faccia con la parola fine. «Nel 2011, quando ho passato tre giorni in coma per un batterio killer. A questo punto mi sento come quello che canta Jovanotti: un immortale». Nessuna paura che la terza volta possa essere quella definitiva? «No. Nessuno partecipa alla propria morte. Però ho paura della sofferenza».

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