Un’altra strana coppia del No: Mario Monti e Stefano Fassina
Il tecnico che domò lo spread e perse la sfida della politica; e il politico che voleva domare i tecnici e perse il partito
Il tecnico che domò lo spread e perse la sfida della politica
Si sa che la politica, come la vita, è fatta di alti e bassi, e il professor Mario Monti non è stato certo il primo a sperimentarne le conseguenze: come rappresentante del popolo e delle istituzioni, per quanto meno in confidenza con il primo che con le seconde, ha dovuto provare molto presto, sulla carne viva dei suoi indici di popolarità, la mutevolezza dell’opinione pubblica e della fortuna, dei sondaggi e degli amici. Non è stato il primo e non sarà certo l’ultimo a passare in un momento dagli applausi ai fischi, dalle stelle delle interviste a doppia pagina alle stalle dei corsivetti irridenti. In pochi, però, potrebbero competere con lui per ampiezza e velocità dell’oscillazione: dai tempi in cui persino il fatto che d’inverno indossasse un cappotto diveniva occasione per sottolinearne le altissime virtù civiche, ben rappresentate dall’altrimenti incomprensibile definizione di «sobrio loden» riferita al suo soprabito, fino ai tempi, più recenti, in cui persino gli amici più cari sembrano averlo abbandonato. Arrivando a sostenere – come ha fatto impietosamente il senatore Pd – ex Scelta civica Pietro Ichino – che si sia schierato per il No solo perché convinto, in tal modo, di favorire la vittoria del Sì. Poi dice gli amici. L’inizio era stato ben diverso. Nel giorno in cui il suo governo giura al Quirinale, industriali e sindacalisti, studenti e professori, pubblici ministeri e avvocati fanno letteralmente a gara per consegnare a microfoni e taccuini dei giornalisti il loro personale fremito di commozione. Con le sole, scontate eccezioni del populismo leghista e grillino, il coro non conosce distinzioni di orientamento politico, culturale o religioso: dai liberaldemocratici agli anarco-insurrezionalisti, dai neogollisti ai nazi-maoisti. Una reazione che si può naturalmente spiegare con l’angoscia provata fino a un attimo prima, di fronte all’impennata dello spread e a un governo di centrodestra evidentemente incapace di rispondere alla crisi, isolato nel mondo e platealmente deriso in Europa. Sta di fatto che quando, nel novembre del 2011, il presidente Napolitano conduce in porto la crisi istituzionale nel pieno della tempesta finanziaria, prima nominando Mario Monti senatore a vita e poco dopo portandolo a Palazzo Chigi, la reazione va molto al di là di un semplice sospiro di sollievo per lo scampato pericolo. Non foss’altro perché il pericolo non è affatto scampato. Prevale però l’idea di un’Italia capace ancora una volta di rialzarsi dalla polvere, affidandosi al meglio della sua classe dirigente. Oggi che la popolarità delle politiche di austerità europee è giusto un gradino sopra quella dell’e stablishment, del Bilderberg e della Trilateral, fa sorridere pensare che nel 2011 il campione della nuova Italia della sobrietà e del rigore fosse proprio lui: Mario Monti, il presidente della Bocconi, ex commissario europeo, ex consulente di Goldman Sachs, già membro della Commissione Trilaterale e pure del gruppo Bilderberg. Ma la divisione in buoni e cattivi, in quel momento, è dettata da altre paure e cerca altri capri espiatori, lungo altre linee di demarcazione e delegittimazione. La diagnosi di Mario Monti è tanto antica quanto diffusa. «Perché l’Italia è ridotta un po’ male? –dichiara nel febbraio 2012 –Perché per decenni i governi italiani hanno avuto troppo cuore e hanno profuso troppo buonismo sociale, soprattutto prima che arrivasse l’Euro – pa un po’ austera a renderci più attenti». Paolo Cirino Pomicino ricorda che ai tempi in cui esplodeva il debito pubblico Monti era un «suo collaboratore» al ministero del Bilancio, ma nessuno ci bada. Giulio Sapelli gli dedica un libricino durissimo, L’inverno di Monti, ma è una goccia nell’oceano.
Il governo dei tecnici, e anzitutto il ministro del Wefare Elsa Fornero, si prende la responsabilità di provvedimenti durissimi, dalla riforma delle pensioni (da cui nascerà l’infinito problema degli esodati) a quella del lavoro (con un primo colpo all’articolo 18). Nel frattempo, il parlamento vota a tempo di record e a maggioranza schiacciante, in ossequio al Fiscal Compact, una modifica costituzionale da niente come l’ob – bligo del pareggio di bilancio. Nel Pd, gli unici a mettere in discussione l’intera strategia e a chiedere che si torni al voto, sono due esponenti della segreteria di cui la stampa parla come «giovani turchi»: Stefano Fassina e Matteo Orfini. Il primo, come responsabile economico, diventa il principale critico di Monti nella maggioranza. Ma se nemmeno la Cgil ha la forza o la voglia di opporsi oltre un certo segno, figurarsi il Pd di Pier Luigi Bersani, che con il Pdl guidato da Angelino Alfano e l’Udc di Pier Ferdinando Casini sostiene l’esecutivo in parlamento.
È la cosiddetta maggioranza Abc: Alfano-Bersani-Casini. Già, è vero: all’appello manca qualcuno. Con uno dei suoi giochi di prestigio più riusciti, infatti, il Cavaliere è riuscito a smaterializzarsi. Rientra in scena solo a pochi mesi dal voto e con un’ultima piroetta si ricolloca all’opposizione, cavalcando l’onda montante della reazione popolare all’au – sterità montiana, fino a sfiorare l’impensabile rivincita elettorale. Il Professore, che tutti davano già per prossimo capo dello Stato e che ha preferito invece farsi il suo partito, Scelta civica, alle elezioni raccoglie un magro 8 per cento, certificando l’inizio di un calo di popolarità che si rivela perfettamente simmetrico all’ascesa di Beppe Grillo. Tra 2011 e 2013 il Movimento 5 Stelle passa dal 5 al 25 per cento. Scelta civica, dalle politiche del 2013 alle europee del 2014, dove pure si presenta in coalizione con altre forze, dall’8 allo 0,7. Lo stesso Monti la abbandona al suo destino, conservando il ruolo di senatore a vita, ma di fatto declassato, anche da tanti dei suoi primi ammiratori, da riserva della Repubblica ad avanzo di un establishment screditato. Il suo clamoroso cambio di posizione sul referendum costituzionale appare quindi a molti come la reazione indispettita di un orgoglio ferito. Ma comunque la si pensi sulle sue scelte politiche e di governo, è indubbio che nessuno come lui, pur nella diversità di accenti e di stile, avrebbe titolo per elevare il lamento di Vittorio Gassman nei Soliti ignoti: «M’hanno rimasto solo, ‘sti quattro cornuti».
Il politico che voleva domare i tecnici e perse il partito
Se fosse un pugile non sarebbe certo un Muhammad Ali, uno di quelli capaci di volare come una farfalla e pungere come un’ape, ma nessuno può negare che sia un incassatore eccezionale. Se fosse un calciatore sarebbe probabilmente un mediano, ma di quelli che ogni tanto, oltre a recuperar palloni e lavorare sui polmoni, decidono che il pallone se lo vogliono tenere e partono all’attacco, anche se non c’è un solo compagno di squadra che possa seguirli nel raggio di chilometri. Se fosse un politico, in poche parole, non potrebbe essere altri che Stefano Fassina. Vale a dire uno strano miscuglio di istinto gregario e spirito di contraddizione, conformismo e anticonformismo, umiltà e ambizione. Rigido difensore della disciplina di partito, ma anche indisciplinatissimo dirigente, burocratico e ribelle, Fassina è forse, prima di tutto, un secchione con il vizio della contestazione, sin da quando era studente di Economia alla Bocconi, ma anche militante della Fgci. E rettore, ironia del destino, era quello stesso Mario Monti che quasi un quarto di secolo dopo Fassina si ritroverà a contestare da tutt’altra (e forse anche più scomoda) posizione.
Lo scontro con Monti è una tipica vicenda fassiniana, in cui emergono tutti i difetti e tutte le qualità del dirigente che non rinuncia mai a dire quello che pensa, neanche quando sarebbe opp or tuno. La prima richiesta di dimissioni per le sue posizioni «in netta dissonanza rispetto alle linee di responsabilità e di rigore assunte giustamente dal segretario Bersani» arriva già il 23 novembre 2011, vale a dire a poche settimane dal varo del governo Monti, ed è firmata dalla corrente liberal del Pd. Richiesta che appare subito eccessiva, ma che non risparmia a Fassina un riservato invito a «moderare i toni» e a «evitare polemiche inutili». Due giorni dopo, constatando con soddisfazione di essere stato difeso da tutti, si sdebita con una parola di pace: «La linea Ichino ha il due per cento nel Pd». Inutile dire che lo scontro, appena sopito, ricomincia subit o. Il balletto durerà quanto il governo Monti. A giugno 2012 Fassina dichiara alle agenzie che il Pd dovrebbe valutare di anticipare il voto in autunno. «Il Pd conferma la posizione di sempre e cioè che le prossime elezioni si terranno nel 2013», chiarisce subito Stefano Di Traglia, portavoce del segretario, rimandando alla direzione del partito, già fissata, in cui Bersani chiarirà definitivamente la linea. Ma intanto tra i dirigenti si è aperto il dibattito, che vede Matteo Orfini difendere la proposta Fassina e tutti gli altri bocciarla. «Mi pare una sciocchezza – sentenzia ad esempio Massimo D’Alema – non credo che sia ragionevole puntare alle elezioni ad ottobre… Una cosa è stimolare il governo e chiedere un maggior impegno per la crescita, altra è farlo cadere, che è uno stimolo, direi, eccessivo».
Si ricomincia a ottobre, con Fassina che affida al Foglio una lunga riflessione dal titolo «rottamare l’agenda Monti» e il vicesegretario del partito, Enrico Letta, che dichiara: «Si è passato il segno». E poi a gennaio, con lo stesso Monti che in diretta tv invita Bersani a «silenziare Fassina». All’indomani del voto, dopo lo choc per la mancata vittoria e il tentativo infruttuoso di formare un governo da parte di Bersani, arriva il rompete le righe durante le votazioni per il Quirinale. Contestazioni, lotte intestine, franchi tiratori. La partita si chiude con la rielezione di Giorgio Napolitano al Quirinale e le dimissioni di Bersani da segretario, in un clima da guerra civile. Per stoppare l’ascesa di Matteo Renzi, Fassina firma con Alfredo D’Attorre e Maurizio Martina un documento dal non accattivante titolo «Fare il Pd» che dovrebbe rappresentare,cosìalmeno diconoigiornali, la piattaforma dei bersaniani per il successivo congresso. Si parte da un netto rifiuto delle «politiche europee di austerità» e non manca un passaggio sulla riforma della Costituzione che non esclude addirittura l’idea di «spingersi oltre le colonne d’Ercole del suo impianto parlamentare», in direzione del semipresidenzialismo. Ma la partita congressuale seguirà altre strade, a rappresentare i bersaniani al congresso sarà infine Gianni Cuperlo, mentre Fassina si ritroverà ancora una volta in una posizione non facile, quella di viceministro all’E conomia del governo Letta, a difendere la politica economica di un esecutivo di grande coalizione con il Pdl, in un ministero guidato dall’ex direttore generale di Bankitalia Fabrizio Saccomanni. Che certo non è Varoufakis.
È di questo complicato periodo anche l’intervista a due voci concessa a Panorama insieme a Renato Brunetta, con toni idilliaci e foto dei due che ridono insieme sotto il romantico titolo «La nostra grande intesa», che gli avversari interni di Fassina non smetteranno mai di ricordargli. Ma con la segreteria Renzi la vena ribelle prende il sopravvento, e quando ai giornalisti che gli chiedono conto dell’ultima dichiarazione di Fassina il segretario risponde «Chi?», i giochi si chiudono, Fassina si dimette e passa di fatto all’opposizione interna. Nel frattempo, però, il Pd trionfa alle elezioni europee. «Cosa ha pensato quando ha visto lampeggiare quel 40 per cento?», gli chiede malignamente un giornalista. «Un’apparizione! Un sentimento di stupore, d’incredulità – non esita a dire il nemico pubblico numero uno del renzismo – Ci siamo attaccati ai telefonini e il dato era uniforme in tutte le sezioni. Vedere quel 4… dopo il simbolo del Pd…». Quindi Renzi si è rivelato più bravo di voi bersaniani, insiste, implacabile, l’intervistatore. «Ha dimostrato grandi qualità: è l’uomo giusto al posto giusto», risponde Fassina, senza fare una piega.
A ristabilire il naturale ordine delle cose verranno poi le polemiche sul Jobs Act e sulla riforma della scuola, l’addio al Pd e la formazione di Sinistra italiana (dove Fassina non tarderà a inimicarsi buona parte di Sel), la candidatura alle comunali a Roma e le polemiche con i vecchi compagni del Pd sulle sue mezze aperture ai grillini in caso di ballottaggio. E infine il referendum, in quel fronte del No dove si ritroverà, ancora una volta, al fianco di Mario Monti. Ma certo, almeno questa volta, nessuno potrà avere dubbi su chi dei due abbia dovuto accodarsi, più o meno di malavoglia, su una linea che non gli apparteneva. O no?
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