giovedì 7 aprile 2016

La vera storia dei 101 “traditori” nei giorni che bruciarono Prodi

Il ruolo di Bersani, D’Alema, Rodotà e Renzi nel no al Professore
19 aprile 2013. La riunione dei gruppi Pd nella quale in molti acclamano Prodi

26/01/2015
ROMA
È una storia infinita. Ogni giorno si arricchisce di un nuovo colpevole. Di un nuovo, fantomatico capo. Ma la vera storia dei centouno grandi elettori del centrosinistra che «tradirono» Romano Prodi il 19 aprile del 2013 è molto diversa dalla vulgata prevalente: nei 21 mesi da allora trascorsi tanti tasselli si sono via via ricollocati e altri, ancora inediti, compongono un plot davvero spiazzante. Privo di una regia unica e di «uomo nero», ma ricco invece di «colpevoli» rimasti nell’ombra. Una storia esemplare anche in vista della conta ormai imminente. 
Il primo «piano sequenza» inquadra Eataly, il mega-store di prodotti culinari italiani inventato da Oscar Farinetti. È la sera del 18 aprile 2013 e il giorno prima si era consumato il flop di Franco Marini, candidato al Quirinale dell’accordo tra Bersani e Berlusconi. In quelle ore il Pd sta decidendo di cambiare cavallo e strategia e a quel punto il sindaco di Firenze Matteo Renzi, sempre così restio a farsi vedere a Roma, si scomoda. Convoca i «suoi» 35 parlamentari al ristorante e gli comunica: «Si vota Prodi». Renzi non mostra incertezze, perché intuisce che se si forma un governo di legislatura, lui rischia di finire per cinque anni nel freezer. In quelle ore un politico dal naso fine come Gaetano Quagliariello constata: «Prodi è una scelta legittima ma che va inevitabilmente verso la fine della legislatura». Renzi scommette su un Capo dello Stato indipendente, capace di sciogliere le Camere. Uscendo da «Eataly», a chi gli chiede se si senta il vincitore della giornata, il sindaco replica: «No. Vince l’Italia se domani sarà eletto un presidente di grande rilievo internazionale». Dunque, fortissimamente Prodi. Candidato e profilo recentemente persi di vista, ma è pur vero che la sparata di qualche giorno fa da parte di Stefano Fassina («Renzi è il capo del 101!») risulta priva di fondamento.  

Dopo il ritiro di Marini  
Ma quella notte accadono altre due cose decisive: Bersani, dopo aver fatto ritirare Marini, sta precipitosamente convergendo anche lui su Prodi. Confida oggi Marini: «La rapidità con la quale Bersani ha lanciato Prodi, senza preparare troppo la candidatura, si spiega in un modo solo: provò a giocare d’anticipo perché temeva una candidatura di D’Alema a quel punto vincente». Una ricostruzione postuma che si incastra perfettamente con l’altro colpo di scena di quella notte: D’Alema fa sapere di essere pronto a sfidare Prodi. A scrutinio segreto! Scontro lacerante ma vero tra i duellanti di un ventennio. Nel cuore della notte vengono preparate le schede per la mattina successiva. 
E qui va in scena il secondo «piano sequenza». Diciannove aprile, ore 8, cinema Capranica. Bersani propone ai grandi elettori del Pd la candidatura di Romano Prodi e a quel punto accade l’imponderabile: all’annuncio del nome di Professore, le prime due file, ma solo quelle, si alzano in un applauso entusiastico, Bersani e Zanda «cedono» all’acclamazione senza voto. Racconterà più tardi Massimo D’Alema a Marco Damilano nel suo «Chi ha sbagliato più forte»: «In sala c’è stato l’errore grave di chi doveva parlare e non lo ha fatto». E cioè Anna Finocchiaro. Non si è mai capito invece chi fossero i parlamentari della claque anti-voto segreto e oggi uno di loro confida: «Renzi ci fece sapere che era meglio “lanciare” subito Prodi, evitando il pericolo D’Alema». 

Il Professore in pista  
A quel punto, sono le 9 del mattino, il Professore è in pista. Visto che dal Pd nessuno si preoccupa di coinvolgere Monti, Rodotà, Grillo, è Prodi stesso, in Mali per una missione Onu, a farsene carico. Telefona a Massimo D’Alema, che è sincero e gli dice: «La situazione, dopo l’esito del voto su Marini, è molto confusa e tesa». Prodi annota mentalmente: D’Alema non mi farà votare dai suoi. Poi chiama il suo vecchio amico Mario Monti, che gli rinnova tutta la sua amicizia ma gli dice: «Romano la tua candidatura è divisiva...». E due. In quelle ore convulse chi può ancora fare la differenza è Stefano Rodotà, votato fino a quel momento dai Cinque Stelle. Vanno da lui i capigruppo Crimi e Lombardi per chiedergli se sia pronto a lasciare il campo a Prodi e invece la sorpresa: non si ritira e mette il suo mandato nelle mani del Cinque Stelle. Ha confidato di recente uno dei due ex capigruppo: «Eravamo sicuri che Rodotà si sarebbe ritirato e invece...». Anche Prodi cerca Rodotà, che fa capire che a chiamarlo deve essere Bersani e comunque l’essenza del passaggio è chiara: davanti ad una soluzione «alta» come quella di Prodi, Rodotà non si ritira. Il Professore conclude le sue telefonate e intanto in Parlamento si prepara l’affondamento. Ha scritto Sandra Zampa nel suo libro su quei tre giorni che il senatore Ugo Sposetti (dalemiano doc) «faceva telefonate per sollecitare un no a Prodi», ma non era «l’unico telefonista in servizio». Anche perché erano tante le tribù «offese» dagli errori di quelle ore, dalemiani, orfani di D’Alema, ex popolari orfani di Marini. Prima che la votazione inizi, Prodi telefona alla moglie Flavia: «Non passerò». 

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