Boeri cancella i privilegi dei sindacalisti: stop alla maxi pensione
- Susanna Camusso, Annamaria Furlan, segretaria della Cisl, Susanna Camusso segretaria della Cgil e Carmelo Barbagallo, segretario Uil. Foto Agf
Il privilegio pensionistico dei sindacalisti ha le ore contate. A dire il vero potrebbe già essere finito non fosse che sulla partita si sta consumando l’ennesimo braccio di ferro tra il ministero del Lavoro e l’Inps. La circolare dell’Istituto guidato da Tito Boeri è arrivata agli uffici legislativi del dicastero di Giuliano Poletti e – almeno per il momento – li si è fermata. “Questioni tecniche”, spiegano gli addetti ai lavori sottolineando che serve qualche tempo per valutare il provvedimento prima di vistarlo e applicarlo. Insomma sulla carta non ci sarebbe nulla di strano, non fosse che tra le parti da qualche tempo è calato il gelo. I rapporti sono ridotti al minimo. Da un lato c’è l’esecutivo che soffre la figura di Boeri con i suoi interventi e le sue proposte, dall’altro c’è l’economista che non accetta di fare il passacarte del governo convinto che l’Inps debba avere un ruolo nella partita previdenziale del Paese. Fino alle prossime elezioni sarà tregua armata, ma nel frattempo bisogna mandare avanti l’ordinaria amministrazione in una situazione tutt’altro che semplice.
La vicenda delle pensioni per i sindacalisti è in questo caso emblematica. “Abbiamo intenzione di intervenire sui privilegi di alcune categorie. Cominceremo con una circolare che interviene su quello che si sono concessi i sindacalisti” aveva detto a inizio marzo Boeri ricordando che “alla fine della loro carriera hanno versato copiosamente contributi per rimpinguare la loro posizione previdenziale”, con l’effetto di aumentare l’importo della pensione percepita.
- Tito Boeri, presidente Inps
Il velo sui vantaggi che una carriera sindacale può portare era stato alzato proprio dall’Inps nel 2015 con il rapporto “Porte aperte” dal quale era emersa una situazione paradossale: se i rappresentanti dei lavoratori che ricevono versamenti aggiuntivi da parte delle organizzazioni sindacali venissero trattati come gli altri, perderebbero il 27% dell’assegno previdenziale. I sindacalisti in aspettativa non retribuita o in distacco sindacale (aspettativa retribuita utilizzata nel settore pubblico) hanno, infatti, diritto nel periodo di assenza dal lavoro all’accreditamento dei contributi figurativi. Spesso per lo stesso periodo vengono loro versati anche i contributi dal sindacato che, per i dipendenti del settore pubblico, vengono ancora valorizzati applicando le regole precedenti al 1993 (la pensione viene quindi calcolata sull’ultima retribuzione percepita).
La circolare dell’Inps prova quindi a fare chiarezza spiegando la differenza tra aspettativa e distacco sindacale: nel primo caso “la contribuzione aggiuntiva deve essere versata sull’eventuale differenza fra il compenso erogato dall’Organizzazione sindacale e la retribuzione di riferimento per l’accreditamento della contribuzione figurativa”, mentre nel secondo caso il sindacato “può versare l’intero importo dovuto a titolo di contribuzione aggiuntiva, entro il previsto termine, in quanto la misura della contribuzione aggiuntiva è calcolata sull’intero importo degli emolumenti erogati dall’Organizzazione Sindacale al lavoratore in distacco”.
- Il ministro del Lavoro, Giuliano Poletti con Susanna Camusso
La questione è importante perché secondo le banche dati dell’Istituto, i lavoratori in aspettativa non retribuita nel settore privato sono stati 2.773 nel 2013 mentre è molto rara in questo settore l’aspettativa retribuita. Viceversa, è frequente nel settore pubblico: i dipendenti in distacco sindacale erano 1.045 mentre quelli in aspettativa erano 748. I dati del 2010, invece, dicono che le giornate di assenza dei pubblici dipendenti per motivi sindacali (inclusi i permessi) rappresentano lo 0,16% delle giornate complessive di lavoro, pari al lavoro di 3.655 dipendenti per un anno e si traducono in un costo complessivo annuo valutabile in 113.277.390 euro.
Anche per questo la circolare sottolinea che la copertura contributiva aggiuntiva non è automatica, ma facoltativa. Per quanto riguarda i riflessi pensionistici, l’Inps chiarisce che “predetti emolumenti e indennità non sono riconducibili alla quota pensionabile A ma rientrano nel più ampio concetto di remunerazione, alla stregua di un’indennità accessoria computabile in quota B”. Un passaggio importante, perché nel rapporto “Porte aperte”, l’Inps spiegava come il versamento della contribuzione aggiuntiva non incidesse su quando andare in pensione, ma “ha riflessi importanti sul livello della pensione, soprattutto per i dipendenti pubblici che si trovano nel regime misto o in regime retributivo ante riforma Fornero. Infatti, i periodi di contribuzione aggiuntiva vengono riconosciuti ai fini del calcolo della quota di pensione determinata per le anzianità maturate fino al 1992 (la cosiddetta quota A). La quota A di pensione è determinata sulla base della retribuzione percepita l’ultimo giorno di servizio ed è quindi soggetta a regole più generose rispetto a quelle applicate dal 1992 in poi per il calcolo della quota B di pensione, che considera la media delle retribuzioni percepite in un periodo di tempo più lungo”.
In definitiva, l’Inps simula cosa accadrebbe a pensionati appartenenti al settore pubblico per i quali la pensione è stata ricalcolata escludendo la contribuzione aggiuntiva dalla quota A e attribuendola alla quota B: “Sebbene il campione sia ridotto si nota una riduzione media dell’ordine del 27% sulla pensione lorda. In un caso si avrebbe addirittura una riduzione del 66% della somma percepita”. Esattamente quello che accadrà nel momento in cui la circolare dell’Inps verrà adottata dal ministero del Lavoro.
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