ECONOMIA
Crisi, l'unione fa la crescita
Più trasparenza. Ridistribuzione dell'Irap. Rating di filiera. La ricetta dell'economista Daveri: «Coesione anti-recessione».
di Antonietta Demurtas
La trasparenza ci salverà. È questo l'obiettivo su cui bisogna puntare in questo momento secondo Francesco Daveri, docente di Scenari economici presso l’Università di Parma e la Sda Bocconi.
Inutile parlare di grandi opere e riforme, «le risorse pubbliche sono poche e alla fine i piani rimangono sempre sulla carta», dice l'economista a Lettera43.it.
I DATI DELLA RECESSIONE. Nella realtà sono invece i numeri a lasciare il segno: il debito pubblico è destinato a salire al 130,4% sul Prodotto interno lordo nel 2013 per poi scendere al 129% nel 2014.
Il deficit si prevede possa assestarsi al 2,9% nel 2013 per arrivare all'1,8% nel 2014.
La spesa pubblica totale nel 2013 cresce dello 0,4% rispetto al 2012 raggiungendo il 51,1% del Pil (nel 2014 scende al 49,8% e nel 2015 al 49,4%).
SÌ AL RATING DI FILIERA. Eppure basterebbe una buona dose di realismo per provare almeno a vedere la luce fuori dal tunnel: «Iniziare con alcune modifiche, che non richiedono risorse pubbliche», suggerisce Daveri, come per esempio «sostenere il rating di filera da parte della grande impresa verso i suoi fornitori, un antidoto per le piccole imprese contro il credit crunch».
Perché «uscire dalla crisi è possibile», dice, «ma solo se lo facciamo tutti insieme. E senza cadere nella retorica», avverte.
SERVE LA RESPONSABILITÀ. I modi pratici ci sono: «Rendere più trasparente il finanziamento della spesa sanitaria togliendolo dalle spalle delle aziende per spostarlo su quello di tutti cittadini sarebbe già un passo avanti».
Insomma quello che serve non sono solo i soldi, ma una grande dose di «responsabilità», ricorda Daveri. Peccato che come ha scritto nel suo ultimo libro Crescere si può, l'Italia più che un Paese al verde, è «Verde», ovvero: Vecchio, ricco e densamente popolato.
Inutile parlare di grandi opere e riforme, «le risorse pubbliche sono poche e alla fine i piani rimangono sempre sulla carta», dice l'economista a Lettera43.it.
I DATI DELLA RECESSIONE. Nella realtà sono invece i numeri a lasciare il segno: il debito pubblico è destinato a salire al 130,4% sul Prodotto interno lordo nel 2013 per poi scendere al 129% nel 2014.
Il deficit si prevede possa assestarsi al 2,9% nel 2013 per arrivare all'1,8% nel 2014.
La spesa pubblica totale nel 2013 cresce dello 0,4% rispetto al 2012 raggiungendo il 51,1% del Pil (nel 2014 scende al 49,8% e nel 2015 al 49,4%).
SÌ AL RATING DI FILIERA. Eppure basterebbe una buona dose di realismo per provare almeno a vedere la luce fuori dal tunnel: «Iniziare con alcune modifiche, che non richiedono risorse pubbliche», suggerisce Daveri, come per esempio «sostenere il rating di filera da parte della grande impresa verso i suoi fornitori, un antidoto per le piccole imprese contro il credit crunch».
Perché «uscire dalla crisi è possibile», dice, «ma solo se lo facciamo tutti insieme. E senza cadere nella retorica», avverte.
SERVE LA RESPONSABILITÀ. I modi pratici ci sono: «Rendere più trasparente il finanziamento della spesa sanitaria togliendolo dalle spalle delle aziende per spostarlo su quello di tutti cittadini sarebbe già un passo avanti».
Insomma quello che serve non sono solo i soldi, ma una grande dose di «responsabilità», ricorda Daveri. Peccato che come ha scritto nel suo ultimo libro Crescere si può, l'Italia più che un Paese al verde, è «Verde», ovvero: Vecchio, ricco e densamente popolato.
DOMANDA. Quindi crescere diventa una mission impossible?
RISPOSTA. È solo più difficile, perché in un Paese ricco e densamente popolato le attività produttive costano e trovare qualcuno disponibile a lavorare è più difficile.
D. Perché?
R. Le aspettative sono elevate: uno vuole essere meglio remunerato e non è disposto a fare ogni genere di lavoro.
D. Nonostante la disoccupazione?
R. Sì, sebbene sia al 13%, ci sono anche tanti lavori disponibili, specie nel Nord Est. Offerte che vengono veicolate anche nelle regioni a più alta disoccupazione, eppure non si vedono tutte queste persone che si spostano dalle loro comunità di origine per lavorare.
D. Troppo comodi?
R. Non solo, spesso gli stipendi sono bassi e i costi per spostarsi alti. Un problema legato anche al mercato della casa. È difficile pensare che partano grandi piani come quelli degli Anni 50 e 60 quando si doveva ricostruire il Paese. Adesso si può contare al massimo su ciò di cui parla il governo Letta.
D. Ritocchi, ecobonus?
R. Attività che migliorano la qualità del nostro habitat, ma che non sono come la cementificazione, già avvenuta in maniera estensiva.
D. L'edilizia non più fonte di crescita come lo era in passato?
R. Può ancora far guadagnare e far ripartire le cose, ma solo se si capisce che quello che conta è fare le ristrutturazioni, rendere le case a prova di terremoto, investire sulle tecniche per risparmiare energia. Tante cose si possono fare, ma il business del settore edilizio deve essere riorganizzato e innovato.
D. Innovazione, una parola che in Italia non riscuote tanto successo.
R. Questo perché il Paese ha un quinto della popolazione sopra i 64 anni e tante persone hanno già molte cose in più rispetto ad altri Paesi: dalla pensione all'assistenza sanitaria universale quasi gratuita.
D. Quindi non si preoccupano del futuro?
R. Loro hanno già molti diritti acquisiti, ma sono anche diritti che costano e in un momento di crisi come questo possono diventare privilegi rispetto a chi oggi non riesce nemmeno a entrare nel mercato del lavoro o, se ce la fa, ha uno stipendio da fame e rischia in futuro di non avere nemmeno la pensione.
D. Insomma non c'è speranza?
R. Sì che c'è, basterebbe fare come ha fatto la Germania, che ha le stesse nostre caratteristiche. È vecchia, ricca e anche più densamente popolata: ha 300 abitanti per chilometro quadrato, noi 200.
D. Ma ha anche un deficit pubblico azzerato.
R. Perché loro grazie a Gerhard Schröder hanno avuto la capacità di guardare lontano e fare una vera riforma del welfare. Certo per questo il cancelliere non è stato particolarmente ben voluto, tanto che è stato mandato a casa dai suoi cittadini, ma di quelle scelte ha poi beneficiato Angela Merkel.
D. Per esempio?
R. Ha spostato il finanziamento della spesa sanitaria sulla tassazione generale e del consumo anziché tenerlo a carico delle aziende come succede ancora da noi.
D. Ha liberato le aziende dall'Irap, quello che chiedono le imprese italiane al governo?
R. Sì perché l'assistenza sanitaria è un diritto e un servizio di cui usufruiscono tutti e non può essere una tassa solo sui redditi di impresa. Certo oggi non sarà facile fare una riduzione dell'Irap perché ci sono vincoli di bilancio e pensare di ridurla in modo sostanzioso è difficile.
D. Quindi?
R. Renderla trasparente sarebbe molto utile.
D. Lei propone di ridistribuirla?
R. Certo così le tasse non si riducono, ma si rendono più responsabili e consapevoli i cittadini, che potrebbero decidere quanta assistenza sanitaria vogliono, perché oltre ad averne i benefici ne pagherebbero i costi e quindi potrebbero capire meglio che cosa chiedere.
D. Ma così si andrebbero ad aumentare ancora di più le tasse sul reddito?
R. Di fatto è già così, perché le aziende ci fanno già pagare l'Irap in tanti modi.
D. Per esempio?
R. Con minori assunzioni di lavoratori e quindi in pratica ci sono meno soldi e risorse fiscali per finanziare la spesa pubblica. Oppure la scaricano sui prezzi di vendita dei loro prodotti.
D. In Germania invece oggi godono di tutti i benefici di quella scelta?
R. All'inizio per tagliare l'Irap hanno aumentato l'Iva, e certo durante la crisi come conseguenza immediata i consumi sono aumentati in maniera ridotta. Ma l'alleggerimento fiscale nei confronti delle imprese ha accresciuto di molto la competitività delle loro esportazioni, tanto che nel 2008 sono diventati i primi esportatori al mondo. E oggi hanno un tasso di occupazione che invidiamo tutti.
D. Che cosa dovremmo copiare ancora dalla Germania?
R. La loro capacità di abbattere la burocrazia. Lo sportello unico doganale per esempio: prima del 2011 servivano fino a 68 istanze uguali da presentare a 18 amministrazioni diverse, tutto per ottenere un foglio di carta con un permesso.
D. Poi cosa è cambiato?
R. Con la riforma operativa da luglio 2011 hanno unificato il back office dello Stato, grazie anche alla digitalizzazione del servizio. Certo per ora sono in fase transitoria fino a luglio 2014.
D. Ma almeno hanno avviato il processo, da noi si dice che le imprese devono internazionalizzarsi poi però la burocrazia le affossa.
R. Qui parlano tutti di semplificazione, ma i cantieri di lavoro per avviare i processi di snellimento non vengono mai chiusi. Alla fine sono solo parole da usare nei talk show che non diventano pratica quotidiana.
D. E intanto le imprese muoiono schiacciate dal credit crunch.
R. Per questo serve più coesione e responsabilità condivisa: solo insieme possiamo uscire dalla crisi. Serve una finanza del noi.
D. Che calata nella realtà significa?
R. Quello che per esempio ha fatto a gennaio la casa di moda Gucci, che ha stretto un accordo con banca Intesa per fornire all'istituto di credito un rating di filiera.
D. Di cosa si tratta?
R. Una serie di dettagli e rassicurazioni sui propri fornitori - aziende piccolissime che spesso non sanno nemmeno redigere un business plan - e cui le banche negavano un prestito.
D. Invece se la grande azienda fa da garante...
R. Basta far presente alle banche che è anche nel loro interesse che il piccolo fornitore specializzato abbia accesso al credito e possa continuare a fare il lavoro per la grande azienda. Un modus operandi che dovrebbero adottare tutte le grandi imprese, dal settore dell'abbigliamento a quello della meccanica. Sarebbe un importante antidoto contro il credit crunch.
RISPOSTA. È solo più difficile, perché in un Paese ricco e densamente popolato le attività produttive costano e trovare qualcuno disponibile a lavorare è più difficile.
D. Perché?
R. Le aspettative sono elevate: uno vuole essere meglio remunerato e non è disposto a fare ogni genere di lavoro.
D. Nonostante la disoccupazione?
R. Sì, sebbene sia al 13%, ci sono anche tanti lavori disponibili, specie nel Nord Est. Offerte che vengono veicolate anche nelle regioni a più alta disoccupazione, eppure non si vedono tutte queste persone che si spostano dalle loro comunità di origine per lavorare.
D. Troppo comodi?
R. Non solo, spesso gli stipendi sono bassi e i costi per spostarsi alti. Un problema legato anche al mercato della casa. È difficile pensare che partano grandi piani come quelli degli Anni 50 e 60 quando si doveva ricostruire il Paese. Adesso si può contare al massimo su ciò di cui parla il governo Letta.
D. Ritocchi, ecobonus?
R. Attività che migliorano la qualità del nostro habitat, ma che non sono come la cementificazione, già avvenuta in maniera estensiva.
D. L'edilizia non più fonte di crescita come lo era in passato?
R. Può ancora far guadagnare e far ripartire le cose, ma solo se si capisce che quello che conta è fare le ristrutturazioni, rendere le case a prova di terremoto, investire sulle tecniche per risparmiare energia. Tante cose si possono fare, ma il business del settore edilizio deve essere riorganizzato e innovato.
D. Innovazione, una parola che in Italia non riscuote tanto successo.
R. Questo perché il Paese ha un quinto della popolazione sopra i 64 anni e tante persone hanno già molte cose in più rispetto ad altri Paesi: dalla pensione all'assistenza sanitaria universale quasi gratuita.
D. Quindi non si preoccupano del futuro?
R. Loro hanno già molti diritti acquisiti, ma sono anche diritti che costano e in un momento di crisi come questo possono diventare privilegi rispetto a chi oggi non riesce nemmeno a entrare nel mercato del lavoro o, se ce la fa, ha uno stipendio da fame e rischia in futuro di non avere nemmeno la pensione.
D. Insomma non c'è speranza?
R. Sì che c'è, basterebbe fare come ha fatto la Germania, che ha le stesse nostre caratteristiche. È vecchia, ricca e anche più densamente popolata: ha 300 abitanti per chilometro quadrato, noi 200.
D. Ma ha anche un deficit pubblico azzerato.
R. Perché loro grazie a Gerhard Schröder hanno avuto la capacità di guardare lontano e fare una vera riforma del welfare. Certo per questo il cancelliere non è stato particolarmente ben voluto, tanto che è stato mandato a casa dai suoi cittadini, ma di quelle scelte ha poi beneficiato Angela Merkel.
D. Per esempio?
R. Ha spostato il finanziamento della spesa sanitaria sulla tassazione generale e del consumo anziché tenerlo a carico delle aziende come succede ancora da noi.
D. Ha liberato le aziende dall'Irap, quello che chiedono le imprese italiane al governo?
R. Sì perché l'assistenza sanitaria è un diritto e un servizio di cui usufruiscono tutti e non può essere una tassa solo sui redditi di impresa. Certo oggi non sarà facile fare una riduzione dell'Irap perché ci sono vincoli di bilancio e pensare di ridurla in modo sostanzioso è difficile.
D. Quindi?
R. Renderla trasparente sarebbe molto utile.
D. Lei propone di ridistribuirla?
R. Certo così le tasse non si riducono, ma si rendono più responsabili e consapevoli i cittadini, che potrebbero decidere quanta assistenza sanitaria vogliono, perché oltre ad averne i benefici ne pagherebbero i costi e quindi potrebbero capire meglio che cosa chiedere.
D. Ma così si andrebbero ad aumentare ancora di più le tasse sul reddito?
R. Di fatto è già così, perché le aziende ci fanno già pagare l'Irap in tanti modi.
D. Per esempio?
R. Con minori assunzioni di lavoratori e quindi in pratica ci sono meno soldi e risorse fiscali per finanziare la spesa pubblica. Oppure la scaricano sui prezzi di vendita dei loro prodotti.
D. In Germania invece oggi godono di tutti i benefici di quella scelta?
R. All'inizio per tagliare l'Irap hanno aumentato l'Iva, e certo durante la crisi come conseguenza immediata i consumi sono aumentati in maniera ridotta. Ma l'alleggerimento fiscale nei confronti delle imprese ha accresciuto di molto la competitività delle loro esportazioni, tanto che nel 2008 sono diventati i primi esportatori al mondo. E oggi hanno un tasso di occupazione che invidiamo tutti.
D. Che cosa dovremmo copiare ancora dalla Germania?
R. La loro capacità di abbattere la burocrazia. Lo sportello unico doganale per esempio: prima del 2011 servivano fino a 68 istanze uguali da presentare a 18 amministrazioni diverse, tutto per ottenere un foglio di carta con un permesso.
D. Poi cosa è cambiato?
R. Con la riforma operativa da luglio 2011 hanno unificato il back office dello Stato, grazie anche alla digitalizzazione del servizio. Certo per ora sono in fase transitoria fino a luglio 2014.
D. Ma almeno hanno avviato il processo, da noi si dice che le imprese devono internazionalizzarsi poi però la burocrazia le affossa.
R. Qui parlano tutti di semplificazione, ma i cantieri di lavoro per avviare i processi di snellimento non vengono mai chiusi. Alla fine sono solo parole da usare nei talk show che non diventano pratica quotidiana.
D. E intanto le imprese muoiono schiacciate dal credit crunch.
R. Per questo serve più coesione e responsabilità condivisa: solo insieme possiamo uscire dalla crisi. Serve una finanza del noi.
D. Che calata nella realtà significa?
R. Quello che per esempio ha fatto a gennaio la casa di moda Gucci, che ha stretto un accordo con banca Intesa per fornire all'istituto di credito un rating di filiera.
D. Di cosa si tratta?
R. Una serie di dettagli e rassicurazioni sui propri fornitori - aziende piccolissime che spesso non sanno nemmeno redigere un business plan - e cui le banche negavano un prestito.
D. Invece se la grande azienda fa da garante...
R. Basta far presente alle banche che è anche nel loro interesse che il piccolo fornitore specializzato abbia accesso al credito e possa continuare a fare il lavoro per la grande azienda. Un modus operandi che dovrebbero adottare tutte le grandi imprese, dal settore dell'abbigliamento a quello della meccanica. Sarebbe un importante antidoto contro il credit crunch.
Lunedì, 03 Giugno 2013
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