13/07/2014
Industria, come far crescere il nuovo modello italiano
Anche Merloni vende all'estero, dopo una serie di precedenti: è il momento di chiedersi cosa fare
Anche i Merloni hanno venduto, Indesit passa agli americani di Whirlpool, il vecchio Vittorio non è riuscito a tramandare ai propri figli la stessa passione e lo stesso attaccamento alla manifattura. Non è il primo, al contrario, e non sarà l’ultimo. Lucchini, Marzotto, Merloni sono tutti ex presidenti della Confindustria, tutti re che hanno perduto il loro regno. Per non parlare di Agnelli e Pirelli. Le grandi famiglie del capitalismo italiano hanno tirato i remi in barca, imprenditori capitalisti si sono trasformati in rentier. È un capitalismo senza capitali, lo si scrive da tempo, era la ferma convinzione di Enrico Cuccia. Eppure il mondo, soprattutto oggi, è pieno di capitale, lo dimostra pure Thomas Piketty; il problema semmai è che non viene in Italia.
Ma la questione è ben più complessa, riguarda non solo i soldi, bensì lo spirito imprenditoriale e la sfida molto più grande che viene da un mercato diventato globale. Anche famiglie solide e austere come gli ugonotti Peugeot stanno attraversando un passaggio che rischia di far perdere il controllo sulla impresa fondata dai loro avi. Ma l’elenco di nomi illustri è lunghissimo, dall’Europa all’America, tanto più lungo quanto più si allunga la freccia del tempo. Solo in Italia, però, ogni volta si alza un lamento triste alla ricerca del capitalismo perduto.
Ormai è un dato di fatto: abbiamo perso la grande industria (non solo manifatturiera) che si reggeva su una proprietà familiare, abbiamo ceduto quasi tutti i gruppi del capitalismo di Stato e non siamo riusciti a creare un nuovo modello di impresa stabile a controllo diffuso (Telecom è l’esempio più eclatante). Un peccato. Tuttavia, ciò non è accaduto per mancanza di protezionismo, ma per troppo protezionismo. Il grido di dolore che punta dritto alle casse dello stato, dunque, è del tutto fuori luogo.
Le grandi famiglie hanno venduto allo straniero, si dice, o sono scappate all’estero, l’onta ricada su di loro. Ormai siamo colonizzati. L’apparato produttivo è in svendita. L’elenco è ricco, anche se ruota attorno allo stessoleitmotiv. La verità è che i capitalisti privati non sono stati in grado di internazionalizzarsi; lo hanno fatto gli eredi Agnelli con la Fiat, unici finora nel panorama italico, ma cambiando pelle e testa.
È l’industria delle nicchie d’eccellenza e del quarto capitalismo
Eppure l’industria italiana esiste, eccome, ed è vitale, lo dimostrano le esportazioni. È l’industria delle nicchie d’eccellenza e del quarto capitalismo, Marco Fortis e Fulvio Coltorti lo hanno capito e lo dicono da tempo, anche in polemica intellettuale con gli studi della Banca d’Italia, meno ottimisti sulla solidità di questo nuovo tessuto produttivo. Comunque la si veda, nessuno può mettere in dubbio che si è creato spontaneamente un nuovo “modello italiano”, il quale, però, non si è ancora fatto sistema, non è diventato establishment, non ha cambiato la classe dirigente. Ecco il vero problema che riguarda il presente e si proietta nel futuro.
Se è così, questa industria bisogna farla crescere. Non con il protezionismo che ne distruggerebbe presto la vitalità (la storia insegna), non con gli aiuti pubblici che non sono serviti a nulla, come risulta evidente dalle sorti delle grandi imprese assistite, e nemmeno forzando la concentrazione e la ristrutturazione, come sostiene chi vuole rilanciare una vecchia idea di politica industriale. Allora in che modo? Con una strategia di sistema. Facile a dirsi, ma finora nessuno è riuscito a individuare come.
Senza dubbio in Italia sono fondamentali la riforma del mercato del lavoro e la riduzione del costo del lavoro. Insieme a un forte e costante sostegno, non monetario, ma bancario e organizzativo, all’export. A questo punto, però, bisogna chiedersi se anche l’Italia non debba ricorre a una strategia di concorrenza fiscale, qualcosa a cavallo tra Irlanda e Germania. Del resto, il panorama europeo ci vede fortemente svantaggiati.
Anche questo costa, non abbiamo spazi, c’è il tetto del tre per cento e non ci vengono concesse deroghe, a causa del debito pubblico troppo alto e della crescita troppo bassa. Ma siamo davvero sicuri che non si possano trovare margini, anche consistenti, nel bilancio pubblico? Si possono abolire inutili incentivi a pioggia e a fondo perduto per finanziare una operazione fiscale sulle imprese. L’idea non è nuova, anzi è stata un cavallo di battaglia di Francesco Giavazzi, secondo il quale il grasso da tagliare supera i dieci miliardi di euro.
La maggior parte dei fondi vanno al trasporto, ferroviario e locale
Gli studi fatti per la spending review da Piero Giarda, Enrico Bondi, Carlo Cottarelli mostrano che sono molti, molti meno — due o tre miliardi al massimo — perché la maggior parte dei fondi vanno al trasporto, ferroviario e locale. E dove sono finiti, visto lo stato dei treni, alta velocità esclusa, e dei bus? Sono sostegni al reddito, si ribatte, perché finanziano anche gli sconti per studenti e pensionati. Ma davvero? Non sono al contrario regali ad aziende marce come la romana Atac? Sarebbe meglio privatizzare le municipalizzate e le ferrovie, togliere i sussidi, stabilire tariffe più realistiche (con veri sconti per veri poveri) e in cambio far pagare meno imposte anche alle imprese dei servizi. Più il sistema è semplice e meno dipende dalla discrezionalità della politica, meglio funzionano le cose. Ma non ci sono solo i sussidi industriali.
La riduzione della spesa si è arenata per la quarta volta (cominciò Tommaso Padoa Schioppa nel 2006 e non andò da nessuna parte) di fronte a un limite politico, cioè quando si è trattato di affrontare il perimetro dell’intervento pubblico. Lo si è visto con le slide presentate a marzo da Cottarelli che hanno provocato la reazione di Matteo Renzi. E anche il supercommissario che veniva da Washington è finito su un binario morto. Renzi non ha tutti i torti nel senso che le proposte contenute in quelle slide sono politiche non tecniche, quindi
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