Mafie in Lombardia
Il patto Cosa nostra e ’ndrangheta in nome dei Mangano
In manette figlia e genero dello “stalliere di Arcore” Vittorio Mangano: tutti gli intrecci a Milano
Milano vista dal Duomo (Flickr, mastrobiggo)
Nomi, cognomi e joint-venture economico criminali. In poche parole c’è la risposta a chi si domanda come la famiglia legata allo “stalliere” di Arcore, Vittorio Mangano, si ritrovi sulle cronache odierne, indagata dalla Direzione Distrettuale Antimafia di Milano. Ne è passato infatti di tempo da quando la Digos di Milano, in un rapporto del 1984, annota il passaggio del mafioso Vittorio Mangano all’interno della residenza dell’allora rampante imprenditore Silvio Berlusconi. Ad Arcore ci arriva nel 1974, per poi lasciare la presidenza del futuro presidente del Consiglio due anni dopo, continuando però a gravitare a Milano: nel capoluogo lombardo, quel personaggio che Marcello Dell’Utri definirà «eroe» gestiva per conto di cosa nostra un traffico di droga, come uomo di vertice della famiglia Pagliarelli.
Oggi a quaranta anni di distanza finiscono nei guai la figlia e il genero di Vittorio Mangano, che a Milano non hanno mai smesso di avere interessi economici. In manette nella mattinata del 24 settembre insieme a loro sono finite altre sei persone, che secondo la procura meneghina avrebbero costituito quella che a tutti gli effetti si presenta come l’emanazione di un’associazione criminale. Le otto persone interessate dall’ordinanza di custodia cautelare emessa dalla Direzione distrettuale antimafia di Milano vengono ritenuti, da parte degli inquirenti, parte di un’associazione di stampo mafioso. In manette sono finiti Cinzia Mangano, classe 1969, figlia minore di Vittorio Mangano, il genero dell’ex stalliere di Arcore, Enrico Di Grusa, Orlando Basile, Alberto Chillà, Antonio Fabiano, Giuseppe Porto, Walter Tola e Vincenzo Tumminello. Perquisizioni sono poi state effettuate a Peschiera Borromeo, Bresso, Corsico, San Donato Milanese, Brugherio, Trezzano sul Naviglio, oltre a un sequestro di 3 milioni di euro in beni e con un giro di fatturazioni ritenute false, che finora ammonta a 650mila euro.
Gli eredi di Mangano infatti negli anni hanno gravitato attorno e dentro al mondo delle cooperative di logistica e facchinaggio, anche all’interno dell’ortomercato di Milano, crocevia di interessi economici e criminali. Ed è proprio all’interno del palazzo di proprietà di Sogemi che l’alleanza tra i clan siciliani e calabresi ingrana la marcia. Cooperative, scrivono gli inquirenti che «accumulavano fondi neri grazie all’emissione di fatture false e allo sfruttamento di manodopera clandestina, impiegata in condizioni “animalesche”». Una «mafia imprenditoriale», che ormai la Lombardia ben conosce e che anche i tribunali hanno bollate come tale. Per comprendere questa “mafia imprenditoriale”, emersa dall’indagine vagliata dal Giudice per le indagini preliminari Stefania Donadeo, occorre riavvolgere il nastro delle cooperative della galassia Mangano, in un contesto che tocca i luoghi e nomi “storici” della mafia a Milano.
Nel 1998 fa la sua apparizione negli archivi di Polizia Enrico di Grusa, siciliano, marito della figlia maggiore di Vittorio Mangano, Loredana. Viene arrestato nel giugno di quell’anno dopo quattro mesi di clandestinità a Milano con le accuse di mafia e droga, così come il fratello che verrà poi accusato, e condannato, per aver coperto la latitanza milanese del giovane boss Gianni Nicchi. Le sorelle Mangano e la vedova stessa (Vittorio Mangano morì agli arresti domiciliari nel 2000 mentre scontava condanne per droga, mafia, truffa e duplice omicidio) controllano di fatto le cooperative, che nel 2008 hanno incassato 3 milioni con appalti di ortofrutta, pulizia e trasporto merci. Non è un caso infatti che l’operazione che ha portato agli otto arresti del 24 settembre 2013 sia nata da una costola di quella denominata “King” del 2008, che aveva scoperchiato gli interessi della cosca di ’ndrangheta Morabito-Bruzzaniti-Palamara all’Ortomercato di Milano. Nel corso di quelle indagini, spiegano gli investigatori, sarebbe emersa una contiguità tra gli esponenti della ’ndrangheta e Giuseppe Porto, uomo di Cosa Nostra e arrestato in mattinata: i due gruppi condividevano persino gli stessi commercialisti - i fratelli Cristodaro - e avevano intessuto una rete solidale di rapporti lavorativi.
A governare le holding delle diverse cooperative era il trio Mangano-Porto-di Grusa, che di fatto con i proventi non sostenevano un vero e proprio appoggio logistico ed economico a Cosa nostra - come hanno spiegato il capo della squadra mobile Vincenzo Giuliano e la dirigente della sezione contrasto alla criminalità organizzata Maria Josè Falcicchia - ma venivano investiti in operazioni immobiliari che incrementavano l’infiltrazione mafiosa sul territorio.
A emergere tra le altre è la figura criminale di Giuseppe Porto, che non a caso è legato a doppio filo a un altro uomo considerato dall’antimafia vicino a Marcello dell’Utri e Vittorio Mangano: Natale Sartori, amministratore unico di Alma Group, società consortile per azioni di Peschiera Borromeo che si occupa tra le altre cose di logistica integrata, trasporti, produzione, stoccaggio, traslochi e movimentazione merce. Sartori, siciliano da lungo tempo in Lombardia viene arrestato e condannato per corruzione nel 1999 e poi ricompare di nuovo tra le carte dell’inchiesta “Redux-Caposaldo” dell’antimafia milanese nel 2011. Non è formalmente indagato, ma gli investigatori richiamano il suo nome perché all’interno degli uffici dell’Alma group si sarebbe tenuto infatti un incontro tra Paolo Martino, ritenuto dagli investigatori un influente boss della ’ndrangheta, e Aldo Mascaro, prestanome di Giuseppe Romeo, punto di riferimento delle famiglie di Africo in Lombardia. L’amicizia tra Porto e Sartori infatti fece maturare più di un sospetto tra gli inquirenti già alcuni anni fa, data anche la frequentazione all’interno dei locali dell’ortomercato poi finite sotto la lente d’ingrandimento della stessa inchiesta che portò alla luce il controllo dei clan di Africo a palazzo Sogemi.
Scrivono gli investigatori, inquadrando il contesto storico in cui nascono le attività imprenditoriali del gruppo criminale: «Si è visto che sin dagli anni ’90, le cooperative del gruppo erano collegato a esponenti di primo piano di cosa nostra in quegli anni operanti nel milanese», per poi stringere i rapporti proprio con la ‘ndrangheta di Morabito dal 2003 «in una alleanza strategica mafia calabrese e siciliana per perseguire comuni interessi economici».
Sodalizio che emerse proprio nel corso del processo che seguì l’inchiesta sull’Ortomercato (datata 2009) e che individuò la sua base operativa presso il benzinaio Esso in piazzale Corvetto, più volte richiamato dai pm. A indirizzare gli investigatori furono le parole dell’imprenditore Mariano Veneruso, napoletano e accusato di aver fornito appoggio logistico alla ‘ndrangheta: fu nel corso di quella indagine che per la prima volta gli inquirenti meneghini si imbattono in Giuseppe Porto, detto “il cinese”. Nelle pagine dell’inchiesta ritorna poi un altro nome che ha fatto capolino nell’inchiesta sull’Ortomercato, ma arrestato solo oggi: Alberto Chillà, uomo cerniera tra i Morabito e Porto.
Gli uomini cerniera però, come insegnano ormai gran parte delle inchieste dell’antimafia, non lo sarebbero però solo tra cosca e cosca, e anche qui infatti emerge il “capitale sociale” dell’organizzazione mafiosa. Cioè la linfa vitale che sta fuori dalla mafia: i rapporti con funzionari di banca, commercialisti, imprenditori, gli inquietanti contatti con appartenenti alle Forze dell’Ordine e politici. In questo senso tra le carte vagliate dal gip Donadeo emergono con forza i rapporti tra un ex appartenente alla Polizia di Stato, in grado di fornire appoggi burocratici e non a Enrico di Grusa, oltre a inserirsi a sua volta nel settore delle attività di gestione dei locali acquisiti da di Grusa e soci. Allo stesso modo, l’appoggio elettorale fornito da Giuseppe Porto a Gianni Lastella (appartenente alla Guardia di Finanza e candidato del Popolo delle Libertà alle amministrative del 2011) che non verrà eletto, oppure allo stesso Domenico Zambetti, assessore alla Casa in giunta Formigoni e arrestato con le accuse di concorse esterno in associazione mafiosa, voto di scambio e corruzione.
A Milano, quaranti anni dopo le stalle di Arcore i Mangano sono entrati e sono rimasti nel mondo degli affari. Secondo gli inquirenti le cooperative che di Grusa, Porto e gli stessi Mangano gestiscono, per dirla con le parole del collaboratore di giustizia Alessandro Manno le cui dichiarazioni sono confluite nelle carte dell’inchiesta, sono «frutto di iniziative di Vittorio Mangano». E agli eredi del padrino per intimidire era sufficiente presentarsi con un biglietto da visita ingombrante, senza bisogno di sparare. E la stessa Cinzia Mangano lo sa bene. «Noi» dice intercettata «non dobbiamo dimostrare niente».
Leggi il resto: http://www.linkiesta.it/ndrangheta-cosa-nostra-mangano#ixzz2fpszEWpm
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