La versione egiziana sull'omicidio di Giulio è un insulto all'intelligenza
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Quegli effetti personali di Giulio Regeni offerti ai fotografi su un piatto d'argento sono il simbolo stesso della beffa. E la versione sul suo assassinio offerta ancora ufficiosamente al nostro Paese, quasi per sondare come l'avremmo presa, sono già un insulto. Non soltanto alla richiesta di verità e giustizia, ma all'intelligenza.
Dunque, per come si sta mettendo, dovremmo immaginare che una banda di criminali travestiti da poliziotti, dediti al rapimento di cittadini stranieri, abbia sequestrato un ragazzo per estorcergli del denaro che non possedeva, lo abbia torturato barbaramente per cinque o sei giorni, lo abbia ucciso e poi, non si sa per quale motivo, ne abbia fatto ritrovare il corpo ma solo dopo averlo lavato e rivestito. Naturalmente però, conservando per quasi due mesi i suoi documenti per avere la certezza di farsi accusare di omicidio, ricettazione e quant'altro.
Una quantità di banali contraddizioni che i cinque rapitori avrebbero potuto tranquillamente smontare davanti alla magistratura. Soltanto se, guarda caso, non fossero stati tutti ammazzati nel conflitto a fuoco con la polizia seguito alla loro individuazione. E qui, per le autorità egiziane, il cerchio sarebbe chiuso.
Peccato però che la moglie e la sorella di Tarek, il capo della banda, abbiano già dichiarato che il gruppo non ha nulla a che fare con l'assassinio di Giulio, che i documenti erano in una borsa che uno di loro aveva ricevuto pochi giorni fa da una persona che non conoscono e i 15 grammi di hashish erano loro. E tanto vale aggiungere che i nostri investigatori hanno escluso che la borsa fosse di Giulio.
Certo, se l'avessimo bevuta in tutto o in parte, questa messinscena sarebbe stata la via d'uscita perfetta per salvare la faccia del presidente egiziano che giorni fa aveva solennemente promesso tutta la verità alla famiglia di Giulio e al governo italiano. Quindi, bene hanno fatto il premier Matteo Renzi e il ministro degli Esteri Paolo Gentiloni a respingerla al mittente. Che ora è più incartato di prima.
Ci si domanda come uscirne. La risposta è: primo, dando fiducia alla squadra dei nostri investigatori, che al Cairo hanno raccolto materiale almeno per smontare le versioni di comodo degli egiziani; secondo, dando fiducia a un magistrato che non è abituato a fare sconti a nessuno come il Procuratore di Roma Pignatone; terzo, sperando che ciò che è rimasto di Giulio, il suo corpo, dia a chi indaga più indicazioni possibili per ricostruire l'inferno che è stato costretto a subire.
Il marchio della tortura su quel corpo porta inequivocabilmente la firma degli apparati repressivi e di sicurezza di tanti paesi mediorientali, Egitto compreso. Che poi siano apparati sfuggiti al controllo del presidente al-Sisi o complici dei suoi oppositori, poco importa. Non sarà certo una verità di comodo offerta su un piatto d'argento a sollevarlo dalle sue responsabilità.
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