mercoledì 21 dicembre 2016

La scissione è già nei fatti, resta da capire come e quando verrà consumata

Terza Repubblica
L'ex segretario del Pd Pierluigi Bersani arriva alla sede del Pd in occasione della direzione nazionale a Roma, 7 agosto 2015.   ANSA/ MAURIZIO BRAMBATTI
Bersani è già oggi il quarto soggetto a sinistra del Pd. Resta da capire quando e come si formalizzerà una separazione già ampiamente consumata
 
L’intervento polemico di Roberto Giachetti all’Assemblea nazionale del Pd, ruvido quanto documentato, ha finito con l’oscurare un tema che avrebbe dovuto invece essere centrale: il ruolo e le prospettive della minoranza bersaniana dopo la clamorosa e fragorosa rottura sul referendum costituzionale e l’inevitabile strascico di polemiche, risentimenti e ripicche che ne è seguito. 
La scelta di Matteo Renzi – peraltro sollecitata da settori della minoranza – di convocare il congresso del Pd alla data prevista (autunno 2017), anziché anticiparlo alla primavera come qualche dirigente della maggioranza renziana aveva ipotizzato, ha creato una condizione di sostanziale stallo, accentuata dalla decisione della minoranza di far intervenire soltanto figure minori e di non partecipare al voto conclusivo sulla relazione del segretario. 
Bersani e i suoi restano insomma separati in casa: partecipano alle riunioni ma non intervengono né votano; hanno assicurato la fiducia al governo Gentiloni ma si riservano di decidere liberamente, di volta in volta, su ogni singolo provvedimento; escludono ogni ipotesi di scissione (“Noi siamo il Pd”) ma considerano ormai esplicitamente archiviata la segreteria Renzi, cui rimproverano una mutazione genetica tanto politica quanto culturale e un’intollerabile tendenza all’arroganza, alla divisione interna e alla persecuzione delle minoranze.
Non è dunque un caso se, aggiungendo paradosso a paradosso, Roberto Speranza si sia candidato alla segreteria del Pd nel corso di un convegno di corrente promosso alla vigilia dell’Assemblea nazionale, ma poi non abbia ritenuto necessario comunicare la decisione appena presa al massimo organismo dirigente del suo partito. Quasi si trattasse oramai di due mondi separati, lontani, incapaci di comunicare.
Lo stesso Renzi, che in altre occasioni non ha risparmiato critiche anche dure alla minoranza, domenica è stato particolarmente cauto e, al netto di un paio di battute polemiche, ha rispettato l’impegno a seguire la nuova “linea zen” semplicemente ignorando Bersani e compagni. E se non fosse stato per le parole di Giachetti, della minoranza nessuno si sarebbe neppure accorto. 
Forse è proprio questa la chiave per comprendere la dinamica interna al Pd nei mesi che verranno: due rette parallele che non vogliono, non possono e non amano incontrarsi. Del resto, Renzi non ha nessun interesse, ora che deve ricostruire il suo rapporto con gli italiani dopo la sconfitta referendaria, a impelagarsi in una discussione tutta interna che, lungi dal risolvere il problema della convivenza fra le varie componenti, ha come unico effetto quello di allontanare ancor di più un’opinione pubblica sempre più infastidita da una guerra intestina che dura ormai da quasi tre anni.
Quanto alla minoranza, che ostenta con orgoglio la propria alterità persino antropologica rispetto a Renzi, prima o poi si porrà la necessità di una scelta. A sinistra del Pd ci sono Sinistra Italiana (la nuova formazione che unisce la maggioranza di Sel e la ex minoranza Pd di Stefano Fassina e Alfredo D’Attorre) e Possibile (il gruppo di Pippo Civati), e presto potrebbe arrivare il rassemblement annunciato da Giuliano Pisapia. Nei fatti, Bersani è già oggi il quarto soggetto a sinistra del Pd. Resta da capire quando e come si formalizzerà una separazione già ampiamente consumata.

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