giovedì 8 dicembre 2016

Adesso è chiaro perché la minoranza PD ha votato No insieme a molti parlamentari e senatori e consiglieri regionali del PD. Avevano una sponda interna. Chi come Franceschini non è stato in grado di vincere ad un congresso ora vuole vincere facile. Vergognatevi farisei!!!!!

Pd balcanizzato, Matteo Renzi in minoranza in Parlamento. L'avversario: Dario Franceschini

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Ormai il Pd è un partito “balcanizzato”. Lo scoramento di un fervente renziano dice tanto di come la sconfitta referendaria si sia abbattuta sul Partito Democratico. Un fulmine che ha spaccato la maggioranza del segretario Matteo Renzi: i renziani di qua, i franceschiniani (Areadem) di là. In mezzo, tanta tempesta e altri due poli: i Giovani Turchi, che stanno ancora con il segretario; i bersaniani, che stanno con l’ex segretario e Roberto Speranza ma di certo ora sono tornati vicini ad Areadem. Perché la rottura vera si è consumata tra i due big player: Renzi e Franceschini, i vincitori del congresso contro Bersani, l’asse che finora ha retto il Pd. Ecco: Matteo e Dario non sono più una cosa sola, se ma lo sono stati.
Al netto di tutto, delle varie posizioni di partenza, voto o non voto, dimissioni, reincarico, governo di scopo o istituzionale, Renzi si è infastidito per come Franceschini si è presentato quale portavoce del presidente della Repubblica Sergio Mattarella. Nelle riunioni ristrette con Renzi, in quelle di area nel gruppo parlamentare. Insomma, ritagliandosi il ruolo di ‘ambasciatore del Colle’ che ha oscurato il segretario di fronte al capo dello Stato. Nessuna sorpresa, visto che alla Camera uno dei più ferventi franceschiniani, Francesco Garofani, presidente della Commissione Difesa, è vicinissimo a Mattarella. Da prima che venisse eletto al Colle. 
Ma Renzi si è infastidito ugualmente. E come lui, le altre aree del partito. A cominciare dai Giovani Turchi, i quali - ora che questa crisi è incanalata sui binari delle consultazioni al Colle per vedere di formare un governo di larghe intese oppure il voto - sono dalla parte di Renzi. E anche loro – da intendersi Andrea Orlando, Matteo Orfini e le loro nutrite truppe parlamentari - guardano con sospetto a Franceschini. Tutti contro tutti? Per ora ognuno gioca la sua partita, con alleanze che possono anche cambiare nei prossimi mesi a seconda di chi la spunta. 
Una cosa però è certa: Renzi non ha più la maggioranza nei gruppi parlamentari, che sono sempre stati un campo difficile per lui, eletti in epoca bersaniana, modellati sulla base dell’asse Bersani-Franceschini che reggeva il partito nel 2013. Ora Renzi ha perso l’appoggio dei franceschiniani, passati con lui alle primarie che lo incoronarono segretario esattamente tre anni fa: nel giorno dell’Immacolata del 2013. Continua ad avere una maggioranza in direzione, ma fragile: a patto che i Giovani Turchi restino con lui. 
Basta un’occhiata al pallottoliere dei gruppi di Camera e Senato per pesare la solitudine di Renzi. Il segretario può contare su circa 50 fedelissimi a Montecitorio: qui i renziani puri all’inizio della legislatura erano solo 34. Al Senato al momento dispone di 16 eletti, di cui 13 iniziali. Poca roba rispetto agli eserciti di Areadem. Franceschini conta una 90ina di deputati, una trentina di senatori ed entrambi i capigruppo: Ettore Rosato alla Camera, Luigi Zanda al Senato. Una potenza di fuoco che può decidere tutto. E infatti in questi giorni post-voto ha deciso tutto, riuscendo a condizionare Renzi: è la prima volta che accade da quando è segretario e premier.
I bersaniani sono una ventina al Senato, dai capitani Gotor, Migliavacca e Fornaro a quelli che comunque hanno votato sì al referendum, come Chiti, Idem, Sposetti. L’ex segretario e l’ex capogruppo Roberto Speranza possono contare su una trentina di parlamentari alla Camera. 
L’altra componente forte sono i Giovani Turchi: 40 a Montecitorio, solo 17 a Palazzo Madama ma attivissimi per il ministro Orlando, pronti a sfornare un comunicato a ogni alzata di sopracciglio del Guardasigilli particolarmente infuriato con Renzi per lo stop al ddl sul processo penale prima del voto. Ruggini per ora ricomposte. Fino a quando?
Tra questi quattro poli, si muovono singoli, indipendenti, correnti più piccole. Gente su cui Renzi non può contare. O per lo meno, non è scontato.
‘Sinistra è cambiamento’ fa riferimento al ministro Maurizio Martina, che non nasce renziano ma lo è diventato. E ora è rimasto vicino al segretario, con i suoi 15 deputati e meno di dieci senatori. Anche se pure Martina ha dovuto frenare rispetto alla richiesta di voto immediato che aveva cavalcato all’unisono con Renzi subito dopo la sconfitta al referendum. Anche lui è stato ‘richiamato’ ad allinearsi a Mattarella: al voto se proprio non si sa come uscirne e comunque non prima della fine del 2017, raffreddiamo le macchine. 
Alla Camera ci sono cuperliani (una decina), rimasti col segretario, ma critici. E poi 4-5 prodiani, tra cui Sandra Zampa; 4-5 veltroniani, tra cui Walter Verini, un paio di cattodem, un paio di lettiani, componente che si è per lo più dissolta quando Enrico Letta è partito per Parigi dopo la 'cacciata' da Palazzo Chigi.
Al Senato c’è poi il gruppetto di cosiddetti ‘indipendenti’. Sono 13, tra loro ci sono senatori che finora hanno lavorato col segretario, da Anna Finocchiaro, presidente di prima commissione attivissima sulle riforme costituzionali, a Nicola Latorre, presidente della commissione Difesa e primo dalemiano passato con Renzi. Entrambi però ancora oggi non possono certo dirsi renziani. E poi tra gli indipendenti ci sono Walter Tocci, la madrina delle unioni civili Monica Cirinnà, l’ex operaista Mario Tronti, Sergio Zavoli, Felice Casson. Gente di estrazione varia, certo non ascrivibile a Renzi. 
E sempre al Senato ci sono scampoli di Retedem, gli ex civatiani rimasti nel Pd. Sono due: Lucrezia Ricchiuti e Sergio Lo Giudice. Avevano anche Laura Puppato, ormai renziana. Il segretario forse può continuare a contare sugli ex di Scelta Civica: Lanzillotta, Ichino, Giannini. Forse. 
Ma comunque non basta. Di certo, per ora Renzi è in minoranza sulla grande discriminante di questa crisi di governo: se andare al voto in primavera o aspettare, magari anche fino a fine legislatura nel 2018. Lui vorrebbe votare anche domani. La maggioranza dei gruppi vuole aspettare di maturare la pensione a fine settembre. E chi non sta sicuro nella propria corrente o non ne ha una di riferimento, prende tempo per cercare casa e candidatura al prossimo giro. 
Al Quirinale si lavora per cercare una strada lunga verso il voto, passando per un governo di larghe intese. Che significa con Silvio Berlusconi.
A Pontassieve Renzi, premier dimissionario, l’animale più ferito di questa storia, cerca rifugio nella famiglia. Compleanno della nonna, playstation col figlio. “Oggi faccio l’autista”, ha detto ai giornalisti che lo hanno visto passare in macchina con moglie e figli. Renzi è finito? Di certo, sta per perdere la prima scommessa, quella di andare al voto subito. E se nasce un governo, lui da segretario potrebbe anticipare il congresso del Pd per avere un campo in cui rilegittimarsi a partire da subito. Lo potrebbe decidere in assemblea nazionale, unico organo dove sembra conservare la maggioranza. Anche se tra circa mille delegati, eletti nelle liste insieme a Franceschini, vallo a capire quanti stanno e staranno con l’uno e quanti con l’altro. Oppure potrebbe mollare anche la segreteria del Pd. Oppure potrebbe accettare un reincarico, cosa che per ora esclude.
Chissà. Il quadro cambia di ora in ora. Di certo, è iniziata la partita sul futuro del Pd. Che poi è anche un bel pezzo del futuro della politica in Italia.

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