M5S si avvita su Pizzarotti e Nogarin. Virginia Raggi evoca i manganelli giudiziari poi torna indietro. Il gelo del direttorio
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L’incidente arriva quando Virginia Raggi, ospite di Corriere.tv, fa il verso al peggior garantismo berlusconiano: “Gli avvisi di garanzia non devono essere usati come manganelli”. Parole imprudenti, che contrastano la linea di cautela che Luigi Di Maio aveva consegnato, telefonicamente, qualche ora prima, appena esploso il caso Pizzarotti. Quando, dopo un giro di telefonate da Berlino con gli altri del direttorio, aveva suggerito di tenerla bassa.
Imprudenti, ma anche molto berlusconiane, le parole del candidato sindaco, forse memore del praticantato nello studio Previti. Magari efficaci per sedurre un elettorato di destra, ma indigeribili per quello di sinistra. E, soprattutto, buone per creare un cortocircuito con i precedenti. Sulle rete rimbalzano tweet e articoli con la dichiarazione di Di Maio, che chiese le dimissioni di Angelino Alfano 5 minuti dopo che uscì la notizia che il ministro dell’Interno era indagato ad Enna, proprio per abuso di ufficio sul trasferimento del prefetto.
Ecco che, dopo essere stata raggiunta da qualche telefonata di franco rimprovero, la candidata si corregge. E detta una dichiarazione che suona come un passo indietro o comunque l’ammissione di un errore: “Noi siamo i primi sostenitori del lavoro della magistratura, tra l’altro i primi a fornire materiali alle toghe, come avvenuto a Livorno con il nostro sindaco Nogarin e come abbiamo fatto noi consiglieri nei 2,5 anni di opposizione. Ci tengo a precisarlo perché c’è una parte politica che tende a strumentalizzare e usare certe mie esternazioni per attacchi tendenziosi”.
Il caso Pizzarotti racconta questo cortocircuito giustizialista. Per mesi i pentastellati si sono specializzati nel caricare un avviso di garanzia su un qualunque reato – tanto abuso d’ufficio, tanto concorso esterno, senza distinzione – come una condanna preventiva, buona per proteste, sfiducie parlamentari, campagne o manganellate mediatiche. Attività molto redditizia in termini di consenso. Si capisce la difficoltà, ma anche il nervosismo e l’imbarazzo, a usare lo stesso metro su di sé. Qualcuno a microfoni spenti lo dice pure: “Come fai a spiegare che Alfano per abuso d’ufficio se ne deve andare e Pizzarotti no?”. Ma il malumore riguarda soprattutto gli ortodossi, quelli della prima ora. La vera notizia sarebbe farsi dire tra virgolette che Pizzarotti a questo punto deve mollare. Ma chi lo sussurra non lo dichiara.
Questo nervosismo, nel Pizzarotti day, è tangibile. Anche perché i casi cominciano a essere parecchi, tra sindaci indagati e amministrazioni chiacchierate sul fronte della legalità (leggi qui l’articolo di Gabriella Cerami). È presto, per carità, per parlare di timore di perdere la propria immagine di “diversità” e di apparire come gli altri, però qualche allarme è iniziato a suonare. Ed è suonato proprio sul più indigesto dei sindaci a Cinque Stelle. Nel cortocircuito giustizialista, l’altra storia il grande freddo tra l’eretico sindaco di Parma e il direttorio. L’unica difesa, affidata a Roberto Fico, è davvero una difesa d’ufficio: scarna e priva di calore: “Il sindaco di Parma – scrive su facebook - è indagato per aver nominato il direttore del teatro Regio, cosa che è nelle sue prerogative. La magistratura sta verificando se ha seguito correttamente la procedura. Come sempre, se dovesse emergere una condotta contraria alla legge e ai principi del Movimento 5 Stelle chiederemo un passo indietro. Come in tutti gli altri casi”.
Insomma, toni ben diversi rispetti a quelli usati per il sindaco di Livorno Filippo Nogarin, un “ortodosso” del Movimento indagato la scorsa settimana. Allora fu difeso dal più alto in grado, Luigi Di Maio. Anche per Nogarin valeva il principio che chi viene meno alla legge e ai principi deve fare un passo indietro, ma questa regola era accompagnata da ben altra rivendicazione della propria integrità morale rispetto al Pd. Ma Pizzarotti è il primo a sapere che, nel Movimento, la sua è una storia finita.
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