domenica 10 aprile 2016

Dal campo rom alla Sorbona per diventare avvocata. Anina Ciuciu: "Si può fare tutto, bisogna farsi valere"

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Dalla baraccopoli romana di Casilino 900, uno dei più affollati campi rom d’Europa, alle aule universitarie della Sorbona di Parigi il passo non è breve. E nella storia di Anina Ciuciu, quel passo ha guadagnato deciso metro dopo metro al ritmo della determinazione, dell’ostinazione e della volontà di riscatto.

Anina ha 26 anni, è nata in Romania ed è rom. Sulla sua immaginaria carta d’identità vanta tre cittadinanze: la rumena, la rom e la francese. Sono queste le tre anime che la compongono e che, con in mano una laurea magistrale in giurisprudenza presso il prestigioso ateneo parigino, alimentano il suo sogno: sconfiggere le ingiustizie, i pregiudizi, la discriminazione istituzionale che condanna la comunità rom e tutti gli ultimi.

Per questo Anina dirige il polo giuridico dell’Associazione 16 Maggio, in prima linea nella lotta contro la separazione cui sono condannati gli abitanti delle bidonville francesi. E per questo ha continuato gli studi fino alla laurea, convinta che l’istruzione sia lo strumento migliore per lasciarsi alle spalle il fango, le lamiere, gli stracci dei campi rom e raggiungere quella vita dignitosa che - da bambina rom rumena costretta a vivere con la famiglia nella baraccopoli romana – le si spalancava davanti come un miraggio.

Nei sei mesi del Casilino 900 – che lei non vuole chiamare “campo rom” ma “bidonville”, perché “campo rom” – ci spiega - è un termine razzista legato a una concezione discriminatoria della comunità gitana – quel sogno di una paziente normalità le era stato tolto, assieme al lavoro dei suoi genitori, licenziati in Romania perché rom e costretti a trasferirsi nel nostro Paese. Quel sogno, però, le è rimasto accanto, ostinatamente, anche durante l’anno e mezzo di continui spostamenti da una ex caserma a una casa occupata, da un hotel a un rifugio trovato per fortuna, appena varcata la frontiera tra Italia e Francia.

E ora che la normalità Alina sembra stringerla tra le mani - da ragazza matura, da studentessa ormai laureata, da quasi avvocato e da piena attivista per i diritti dei discriminati – lei in quel campo ci è tornata. Lì dove un tempo erano parcheggiate, le une sulle altre, le loro baracche, ora c’è un prato – e dei ragazzini che giocano poco distante. A Pierluigi De Donno, regista del docufilm “Gitanistan – Lo stato immaginario delle famiglie Rom-Salentine” che ha conosciuto la sua storia l’ha riportata nel luogo della sua infanzia, Anina confessa che è stato emozionante varcare di nuovo quel cancello. L’ha pervasa una speranza ostinata, che le fa augurare a sé stessa che tutti i bambini che hanno condiviso con lei la triste permanenza a Casilino 900 si siano lasciati alla spalle la vita da bidonville.

Molto è cambiato dai sei mesi che, poco più che bambina, Alina aveva trascorso lì. Tra quella parentesi e la passeggiata da ragazza 26enne ci sono i giorni difficili a scuola – quando i suoi compagni di classe francesi la escludevano; ci sono i ricordi, le ferite aperte, i traguardi, l’ostinazione, le cicatrici ormai asciutte, i volti delle persone – come quello dell’istitutrice che, trovando lavoro ai suoi genitori, ha permesso ad Alina e alle sue sorelle di vivere dignitosamente e andare a scuola.
Ci sono tanti tasselli di un mosaico a tinte forti. Ma il colore più importante rimane sempre quello della dignità e del rispetto.

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