Un padre e un figlio, Mario e Giuseppe Francese

di Luana Targia
P_20170525_210651_BF
Luana Targia, Università di Palermo, relatrice Alessandra Dino
Mario Francese era un uomo semplice e umile, ingenuo secondo molti suoi colleghi.
Ingenuo forse perché non si creava problemi nel raccontare la verità, senza fronzoli e veli, ponendosi in una posizione pericolosa senza quasi rendersene conto. E
allora l'aggettivo “ingenuo” diventa un complimento e un elogio al tipo di giornalismo che
Mario portava avanti, diretto e concreto, preciso e senza ombre.
Non a caso l'immagine più chiara che si ha di lui è proprio quella con la penna e il suo taccuino in mano, in cui annotava ogni genere di informazioni, in piedi accanto al pubblico ministero. Era un tipo di giornalista, raro adesso così come allora, che la notizia non la aspettava. Mario usciva fuori dal suo giornale, anche dalla città se necessario, e la notizia la andava a cercare dove nessuno l'avrebbe cercata.
Attraverso uno studio molto approfondito, Mario Francese capisce subito la trasformazione che stava avvenendo all'interno di Cosa Nostra, chi stava prendendo il potere e cosa voleva controllare. Mario Francese nei suoi articoli racconta l'ascesa del clan corleonese, fa nomi e cognomi, descrive i fatti senza divagare e senza omettere; comprende collegamenti che si riveleranno veri a distanza di molti anni, rendendo i suoi articoli una preziosa fonte di verità, la sua penna e la sua macchina da scrivere armi potentissime.
Di queste armi ad inchiostro la mafia ha una gran paura, perché nulla come una chiara e limpida informazione, proveniente da una mente pura ed estranea a intrighi, può rivelarsi un problema per i suoi piani, un intralcio imprevista, un pericolo imminente.
Lo circondava una solitudine molto pesante dovuta al tipo di lavoro che svolgeva, una solitudine che ha giocato un ruolo molto importante nella sua uccisione.  Avvolti da un alone preoccupante di solitudine sono persino il direttore Lino Rizzi e il capocronista Lucio Galluzzo, in seguito ai due attentati che li hanno personalmente coinvolti. Pochi mesi dopo la mafia conclude il suo attacco all'informazione. Uccide la sera del 26 gennaio del 1979 proprio il giornalista Mario Francese, appena uscito dalla redazione del “Giornale di Sicilia”, salutando i suoi colleghi nello stesso modo di sempre: “Uomini del Colorado, vi saluto e me ne vado!”.
Ancora una volta sono i collaboratori di giustizia a fornire i dettagli: Mario Francese era stato ucciso dalla mafia. I motivi dell'omicidio vanno cercati nelle accurate inchieste del giornalista, troppo accurate secondo Totò Riina, che riguardavano la costruzione della diga Garcia, gli interessi della mafia per gli appalti e i subappalti. Serviva quindi una eliminazione non solo del giornalista che aveva esagerato, ma anche un avvertimento per quel modo di fare giornalismo. L'omicidio doveva servire da deterrente per scoraggiare un determinato tipo di informazione: precisa, dettagliata, senza omissioni o amnesie, chiara e diretta, onesta. Dopo il suo assassinio inizia un periodo di silenzio e di demolizione della memoria, durato vent'anni.
Giuseppe Francese nasce il 9 settembre del 1966. È l'ultimo di quattro fratelli: Giulio, il primogenito, Fabio e Massimo.
Giuseppe è una fonte inesauribile di gioia e allegria, riesce a trascinare tutti con la sua passione. Scherza e gioca con i suoi fratelli e con i suoi amici. Un giorno accade qualcosa che segna la vita di quel bambino spensierato e allegro, qualcosa che lo travolge con la forza prepotente della perdita, del vuoto.
Giuseppe ha dodici anni quando la mafia, che per lui è ancora una cosa astratta, sconosciuta, gli porta via suo padre, proprio sotto casa sua, mentre gioca con i fratelli Fabio e Massimo. Lui ama divertirsi, ballare, viaggiare, leggere, scrivere. Ama ridere e fare ridere, ama Jovanotti, i balli latino-americani e le sonorità orientali, ama leggere e i suoi libri preferiti sono “Siddharta”, “Il maestro e Margherita” e “Un uomo”. Ama viaggiare. E, soprattutto, Giuseppe ama scrivere, riempie pagine e pagine.
Così, quando le pagine diventano tante, le trasforma in un libro, una raccolta di scritti, che chiama “Con i miei occhi”. Ed è proprio questo che fa: racconta il mondo con i suoi occhi. Occhi da uomo che ama la verità, occhi da uomo che vuole giustizia, occhi da bambino senza più un papà. A un certo punto qualcosa cambia nella vita della famiglia Francese, e soprattutto nella vita di Giuseppe.
Le dichiarazioni rilasciate volontariamente e quasi con insistenza da parte di un collaboratore di giustizia, noto alla magistratura e definito non attendibile, aprono ferite mai richiuse. Giuseppe rompe un muro che avvolge la famiglia Francese da ormai un ventennio e lo fa nell'unico modo possibile che conosce: indaga, approfondisce, collega fatti e avvenimenti. Giuseppe fa il cronista, diventa suo padre.
A Giuseppe basta arrivare a una sola verità, la più importante della sua vita: scoprire perché è stato ucciso un uomo, suo padre, che faceva il suo mestiere. Lavorando come suo padre, crea un legame personale nuovo. Cerca per lui la verità, ma in realtà la cerca con lui. E, alla fine, convince la famiglia a combattere accanto a lui in questa battaglia che sembra non finire mai.
Il caso dell'omicidio del giornalista Mario Francese, avvenuto il 26 gennaio 1979, viene quindi finalmente riaperto dopo un'attesa durata vent'anni. Il dibattimento inizia il 10 maggio 2000 in Corte d'Assise, e i nomi degli imputati appartengono al clan mafioso più sanguinario che la Sicilia ricordi. In particolare: Salvatore Riina, Francesco Madonia, Antonino Geraci, Giuseppe Farinella, Michele Greco, Leoluca Bagarella, Giuseppe Madonia, Giuseppe Calò.  Il processo si conclude l'11 aprile 2001 con sette condanne. L'incubo è finito per la famiglia Francese, i figli si abbracciano ed escono dall'aula del tribunale travolti da sensazioni di gioia, trionfo, leggerezza.
Una sentenza che riconosce ufficialmente che Mario Francese è stato ucciso dalla mafia, in particolare dal clan corleonese guidato da Salvatore Riina, perché i suoi articoli davano fastidio.
Giuseppe sa che questa è una vittoria per lui, per i suoi fratelli e per sua mamma, ma non costituisce una svolta nella sua vita. Lui è stato il motore di quella ricerca sfrenata che è servita ad accendere una luce poi diventata sempre più forte; lui ha spronato la sua famiglia per convincerla a buttarsi a capofitto nella battaglia verso la verità, una volta per tutte; lui si è trovato, forse più di tutti, faccia a faccia con il padre, entrando nella sua mente ed esplorando il suo intuito, imparando quasi a memoria i suoi articoli.
Il suo quotidiano recupero del padre, trasformatosi in un rapporto invisibile, viene di colpo spazzato via perché non c'è più nulla da recuperare: tutto è stato detto in tribunale, un processo ha afferrato quel quotidiano recupero e l'ha trasformato in una sentenza che mette fine al suo lavoro. La rabbia è andata via e ha lasciato il posto a una fragilità ingestibile. Per questo, e forse per mille altri motivi che hanno invaso la sua testa in quei pochi attimi, il 3 settembre 2002 decide di andare ad abbracciare il suo papà, a soli 35 anni.