domenica 2 aprile 2017

Immigrazione, criminalità e sicurezza: la ricerca che sfata tutti i (falsi) miti

Immigrazione
immigrati-regolari
Il nostro sistema è inefficace o addirittura controproducente perché disincentiva gli immigrati a venire in maniera regolare e anzi li incoraggia ad entrare nel mondo sommerso. Intervista a Paolo Pinotti, professore del Dipartimento di analisi delle politiche e management pubblico della Bocconi
 
Gli immigrati che hanno regolarizzato la loro posizione e lavoravano nel nostro Paese commettono meno crimini. Sembra un’ovvietà, un concetto facilmente intuibile eppure, come sappiamo, per molti nostri politici non è così. Ora una ricerca condotta da Paolo Pinotti, professore al Dipartimento di analisi delle politiche e management pubblico della Bocconi e pubblicata dalla American economic review, lo mette nero su bianco.
I dati analizzati sono quelli relativi agli immigrati che hanno partecipato al primo click day, la giornata istituita nel 2007 dove i datori di lavoro hanno potuto inviare una domanda online per la regolarizzazione dei propri dipendenti. In quell’occasione 600mila persone presentarono la propria richiesta e in 170mila furono accettati. La ricerca di Pinotti incrocia i dati degli immigrati che “ce l’hanno fatta” e di chi è rimasto nella illegalità, con i tassi relativi agli arresti per crimini gravi (come ad esempio furti, omicidi, stupri…).
Ciò che è emerso è che 1 migrante su 100, fra quelli che non avevano ottenuto la regolarizzazione, ha subìto un arresto mentre fra quelli che avevano potuto regolarizzarsi il tasso cala drasticamente: 0,5 persone su 100. Questo vuol dire che integrarsi ed entrare nel tessuto sociale del nostro Paese riduce del 50% la criminalità per reati gravi. Non sono davvero numeri da poco. Sopratutto se pensiamo che una della maggiori preoccupazioni degli italiani è il tema della sicurezza. Non c’è bisogno di ricorrere a risposte semplicistiche per risolvere problemi complessi. Molto si potrebbe fare, quindi, già solo modificando le politiche migratorie nel nostro Paese.
Che cosa contribuisce a non commettere reati? Sicuramente ad influire c’è un fattore psicologico: non essere additati come “clandestini”, “irregolari” o “fuori legge” aiuta a sentirsi parte di una comunità e ad essere accettato. Ma non può essere tralasciato il fattore economico: una persona che lavora e guadagna ha più chance di integrarsi e uscire da una posizione svantaggiata.
Come raggiungere questo obiettivo? Secondo Pinotti, una via che sarebbe opportuno percorrere è lavorare per incrociare più efficacemente la domanda e l’offerta dei lavori proposti ai (e dai) migranti. Cosa che non avviene nel nostro Paese.
Ad esempio se vuoi il permesso di soggiorno, in teoria dovresti risiedere nel tuo paese di origine e aspettare che ti arrivi una richiesta di lavoro dall’Italia, una specie di “sponsorizzazione”. Una cosa impossibile nella pratica perché, come evidenzia Pinotti, “chi potrebbe mettersi in casa o nella propria azienda una persona che non conosce personalmente?“.
Il nostro è un sistema inefficace o addirittura controproducente perché disincentiva a venire in maniera regolare e anzi incoraggia ad entrare nel mondo del sommerso, regolarizzando la propria posizione soltanto in un secondo momento. Lo si è visto con la grandissima affluenza al click day che coinvolgeva migranti che già erano presenti in Italia in maniera irregolare.
C’è quindi l’esigenza di rivedere il sistema della nostra politica migratoria. Lo studio di Pinotti non vuole però suggerire una politica di immigrazione aperta a tutti che, ci dice il Professore, “nel lungo periodo potrebbe portare ad un risultato inverso, incentivando l’irregolarità”, ma superare quello vigente, ormai improduttivo. Una necessità che si fa sempre più urgente, anche per come sono cambiati i flussi migratori nel tempo, e che non può non tener conto che molti degli stranieri sono già sul nostro territorio in maniera irregolare e aspettano risposte da noi. Trattarli in maniera dignitosa e rispettosa è un nostro dovere e un loro diritto, di cui noi stessi non possiamo che beneficiare. A dirlo sono, stavolta, i dati.

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