sabato 3 gennaio 2015

Qualcuno può riprendere? Mettevano tutto in rete. Ah,ah, ah.......Viva la trasparenza.

Intervista a Radio Voghera

Tutorial di scuse per i vigili a Roma. Pinuccio telefona al capitano dei vigili urbani di Roma.

Riceviamo e pubblichiamo.

Le mani di ‘ndrangheta e mafia albanese su Perugia

Droga e armi. L’inchiesta che ha appena portato a 54 arresti nella città umbra
(Oli Scarff/Getty Images)

(Oli Scarff/Getty Images)

   
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Sotto l’ala del Grifo si nasconde la mano della ‘ndrangheta calabrese. Una spaventosa “holding del malaffare” quella scoperta due settimane fa dai carabinieri di Perugia, che ha portato a 54 arresti e un sequestro di beni per 30 milioni di euro. Così viene definito il sistema messo in piedi dalla criminalità organizzata nella insospettabile Umbria. Un sistema costruito ad arte su minacce, estorsioni e usura con tassi al 10 e al 20% e che si serviva «della copertura garantita dalle imprese sottoposte a estorsione per acquisire appalti e/o sub appalti nel settore edile e del fotovoltaico».
Gli atti di intimidazione sono quelli “classici”. Dalle auto incendiate fino alla testa di agnello davanti casa. «Mi hanno detto – si legge in una delle tante dichiarazioni raccolte nell’ordinanza - che era meglio aderire alle loro richieste per evitare che potesse accadermi qualcosa di brutto, come succede in Calabria. Mi facevano presente che giù in Calabria è accaduto tante volte che qualcuno sparisce e i familiari lo cercano e non lo trovano più. Mi parlavano con un linguaggio mafioso». Si presentano così i malavitosi perugini, dai forti legami con le famiglie di origine, con un linguaggio che rievoca colate di cemento e pallottole sparate. Ma accanto alle intimidazioni c’è pure lo spaccio.
Non poteva essere altrimenti, d’altronde, nella città che già da tempo la Dia ha definito “crocevia” del traffico di stupefacenti. Eppure un aspetto che finora non emerso è proprio il massiccio controllo e la capillare gestione del mercato di droga che partiva da Ponte San Giovanni per ramificarsi appunto a Perugia e nelle regioni circostanti. Il tutto condito da una strettissima alleanza. Quello che infatti emerge dalle carte è un vero e proprio sodalizio che si era creato tra famiglie calabresi e clan albanesi.
IL SISTEMA - La cocaina a Perugia c’è, si spaccia e si consuma. E non è dunque solo appannaggio dei nordafricani, il cui canale preferito è quello camorrista, che viaggia sulla E45, giungendo da Napoli, da Cesena o dagli aeroporti internazionali vicini. Nelle intercettazioni i calabresi la chiamano “neve”, “schioppo”, “ragazzetti” da portare a cena e da dividere prima di smerciarla. La nascondono nel riso, «perché si mantiene meglio». A capo del sistema Cataldo Ceravolo, ritenuto dagli inquirenti il “boss” della criminalità perugina, insieme a Cataldo De Dio e Vincenzo Martino. Ma non è tutto. Secondo quanto appurato dagli inquirenti, infatti, spunta una «una sinergia fra il sodalizio indagato e cittadini albanesi stanziati sul territorio perugino».
Il rifornimento avveniva sulla linea direttrice Napoli-Umbria. In un’intercettazione è lo stesso Ceravolo ad affermare: «andiamo a Napoli e la carichiamo». Né è un caso che tra gli arrestati anche Bledy, «un tizio che veniva chiamato ‘lo zio’». Un «albanese di Napoli», come lo si definisce in un’intercettazione, per il lungo periodo passato in Campania. Un periodo che gli aveva permesso, ora, di fare da collante tra le vecchie e le nuove amicizie. Il centro di raccordo era il bar “Apollo 4” di Ponte San Giovanni, gestito da Salvatore Facente e da Letizia Gennari (compagna di Cataldo De Dio). Tutti potevano tranquillamente recarsi lì e fare “compere”. L’importante, per calabresi e albanesi, era vendere.
Le cose cambiavano quando uno non pagava. Si poteva aspettare qualche tempo (ma ovviamente gli interessi crescevano), finchè poi non cominciavano – anche qui – le vere e proprie minacce. Come capitato a uno degli acquirenti, Vladimiro Cesarini, che aveva accumulato un debito di 6mila euro. Avrebbe avuto bisogno di più tempo. Ma gli albanesi non glielo consentono tanto che, come risulta dalle intercettazioni, si barrica in casa «chiuso» perché «teme per la sua incolumità». Alla fine Cesarini riesce a pagare. Prendendo spunto dai suoi stessi strozzini: estorcendo a sua volta il datore di lavoro, dicendogli che «lo avrebbe sparato con il fucile».
“PERCHÉ NON FACCIAMO UN LABORATORIO?” - Un sistema, dunque, vasto e articolato. Talmente vaso che l’idea, stando alle intercettazioni, era quella di ampliarsi ulteriormente. Di tecnologizzarsi. In un’intercettazione, infatti, altri due affiliati, il cirotano Natalino Paletta e il crotonese Francesco Manica (entrambi impiantati da anni a Perugia) dialogano della possibilità di organizzare un laboratorio per la preparazione di cocaina chimica con l'ausilio di un terzo, un “amico” colombiano: «chimicamente, hai capito qual è il discorso? – dice Manica - la vendiamo a 80 euro Nata (Natalino Paletta, ndr)... allora ti vuoi fare il laboratorio?».
L’idea, insomma, è quella di espandersi. Soprattutto per meglio fornire il mondo dabbene del perugino che si riforniva da calabresi e albanesi (spuntano tra le dichiarazioni anche proprietari di alberghi, piccoli imprenditori, uomini d’affari). Senza, ovviamente, dimenticare la rete di pusher minori che arrivava fino al mondo universitario.
L’OMICIDIO POLIZZI - Non solo. Nelle intercettazioni compaiono anche due nomi già tristemente noti alla cronaca perugina e italiana: sono Julia Tosti e Valerio Menenti, rispettivamente la fidanzata e il tatuatore presunto mandante dell’omicidio di Alessandro Polizzi, ucciso nell’appartamento di Via Ricci mentre era con la sua ragazza. I loro nomi spuntano proprio in riferimento al traffico di droga nel perugino gestito da Ceravolo.
La stessa Tosti, in una sua dichiarazione del luglio 2013, dichiara: «posso dire che a volte ho acquistato la cocaina da un tale Cataldo (Ceravolo, ndr), un uomo calabrese, che abita a Ponte San Giovanni (…). Ho conosciuto Cataldo perché me lo ha presentato Valerio. In alcune circostanze, in periodo compreso fra l'estate scorsa e l'ottobre-novembre scorsi, mentre avevo una relazione con Valerio, (i due ragazzi infatti convivevano, ndr) sia io che Valerio abbiamo acquistato cocaina da lui». Julia racconta anche del loro consumo di cocaina, dai 2 ai 5 grammi la volta, per un prezzo di 80 o 90 euro al grammo. E parla anche delle intimidazioni che Valerio riceveva, con l’auto rigata per i debiti accumulati nel tempo.
LA RETE PARALLELA E IL TRAFFICO DI ARMI – Ma non è finita qui. «L’attività di indagine – scrivono gli inquirenti - ha altresì consentito di individuare una diversa organizzazione», composta da albanesi e dagli italiani Simone Verducci e Michaela Cavalieri (che peraltro veniva sistematicamente picchiata da Verducci – le aveva rotto anche il naso – il quale in alcune circostante l’aveva letteralmente “imprigionata” in casa). Questa rete parallela, si legge ancora nell’ordinanza, «riforniva di droga e di armi l'organizzazione di matrice ‘ndranghetista riconducibile a Ceravolo Cataldo, Martino Vincenzo Mario, De Dio Cataldo ed altri sodali, dall'altro risultava effettuare per proprio conto attività di cessione di cocaina a terzi».
Insomma, accanto al traffico “ufficiale”, ce n’era anche un altro parallelo messo in piedi in prima linea da albanesi e calabresi insieme. Non è un caso che in una delle tante dichiarazioni rilasciate da coloro che si rifornivano dai calabresi, si legge che Verducci «dalla fine del 2012 si era messo in affari con alcuni albanesi che trafficavano con lui nella droga». «Personaggi pericolosi», vengono definiti. Ma questo non spaventa Verducci, tanto che diceva in giro di averceli in pugno. Tutti sotto il suo controllo, dunque. Il che non era cosa da poco dato che gli albanesi avevano un potere enorme in mano.
Uno degli arrestati, Ervis Lyte, in una conversazione telefonica con Ceravolo, dice addirittura che, quando era stato in carcere, riusciva a procurarsi la droga anche lì, tramite un afgano. Che Ervis fosse un tipo pericoloso, d’altronde, lo si capisce anche dall’arsenale a sua disposizione. Un arsenale che gli permetteva di fare soldi anche con il traffico di armi. C’è, nell’ordinanza, un intero capitolo sulla disponibilità di armi in mano ai clan. In un’intercettazione è Vincenzo Martino ad affermare di avere nella sua disponibilità (e in quella dell'organizzazione) numerose armi da fuoco e munizioni. E la trattativa di acquisto veniva intavolata sempre con Lyte per l’enorme possibilità di acquisto che offriva. Non solo pistole o fucili. Ma anche lo “sniper” o la TT-33 Tokarev, arma da guerra prodotta nell’ex Unione Sovietica e oggi disponibile solo in Albania e Russia. Tutte armi utili e indispensabili per la ‘ndrangheta. Soprattutto in Calabria. Martino lo dice chiaramente: «servono veramente giù, giù mi servono veramente».
I RAPPORTI CON LA CASA MADRE – Uno degli aspetti maggiormente di peso che emerge dalle carte perugine, però, è l’autonomia di gestione assicurata alla consorteria ‘ndranghetista installatasi in Umbria. Ovviamente, però, i rapporti con la Calabria erano più che frequenti: «è stato documentato nel corso dell'indagine – scrivono gli inquirenti - come la consorteria di tipo 'ndranghetista operante in Umbria mantenga contatti qualificati, specie attraverso Paletta Natalino e Murgi Natale (entrambi arrestati, ndr), con autorevoli esponenti della 'ndrangheta di Cirò». Parliamo soprattutto della famiglia dei Farao, il cui esponente di vertice, Giuseppe, è condannato all'ergastolo ed attualmente detenuto in regime di 41 bis.
Non è un caso allora che «ogni qualvolta Farao Vittorio si reca a Perugia, e ciò avviene con costante periodicità, è spesso in compagnia o del fratello Vincenzo o degli omonimi cugini Farao Vittorio e Farao Vincenzo (entrambi figli di Farao Giuseppe) e si incontra con Paletta Natalino, Murgi Natale (entrambi arrestati, ndr) ed altri componenti dell'associazione operante in Perugia». In un’intercettazione, d’altronde, è Cataldo Ceravolo stesso a parlar chiaro: i Farao salgono per «riscuotere». E, anche in questo caso, c’era il luogo apposito, di rito. Un pub in pieno centro a Perugia. In una traversa del famoso Corso Vannucci. Un pub spesso popolato da studenti. Mentre a un tavolo, in silenzio, la locale di ‘ndrangheta faceva affari, vendeva armi, smerciava droga.

Ci sarà un motivo se gli italiani si fidano solo di lui.

Papa Francesco è l’unico in cui gli italiani abbiano fiducia

29/12/2014 - di 

Indagine Demos per Repubblica, tutti gli indicatori di fiducia dei cittadini italiani in calo, resiste solo il pontefice 

Papa Francesco è l'unico in cui gli italiani abbiano fiducia
Papa Francesco è l’unica figura istituzionale e pubblica in cui gli italiani sentano di avere fiducia: lo rivela l’indagine Demos/Repubblica condotta alla fine del 2014. Tutti gli indicatori di fiducia sono in calo rispetto al 2013, spiega Ilvo Diamanti: l’indagine 2014 è infatti “una versione peggiorativa di quella uscita nel 2013″. Politica, partiti, istituzioni, di nessuno il cittadino italiano sente di potersi più fidare.
PAPA FRANCESCO E NON LA CHIESA - Solo il pontefice argentino riscuote la fiducia di nove italiani su dieci, ma con la precisazione che la fiducia tributata al Papa riflette soltanto la sua persona, e non la Chiesa come istituzione che raccoglie la fiducia del 49% degli italiani. Per il resto, i dati raccontano un vero e proprio bagno di sangue: le istituzioni rappresentative a qualsiasi livello non godono più della fiducia dei cittadini. Gli indici di fiducia nello Stato, nella Regione e nei comuni calano in misura variabile, intorno al meno 15%; fa un vero tonfo l’Unione Europea che riscuote la fiducia del 22% in meno dei cittadini italiani, percepita come troppo lontana, distante e burocratica. Parlamento e Partiti, già ai minimi storici, subiscono un ulteriore calo, con appena il 3% degli italiani che si dice disposto a tributargli fiducia: un numero “ampiamente ricompreso nell’errore statistico”, osserva Ilvo Diamanti.
IL QUIRINALE E I PARTITI - Il calo più vistoso è però quello del presidente della Repubblica; l’istituzione del Quirinale perde la fiducia del 22% degli italiani: “Giorgio Napolitano, “costretto” a subentrare a se stesso, per non creare pericolosi vuoti di potere, ha pagato le tensioni politiche e istituzionali”, continua Repubblica. In generale, comunque, il sistema democratico non gode di ottima salute, se è vero che solo il 66% degli italiani ritiene che la democrazia sia un valore, un dato in calo progressivo dal 2004 quando era il 74%; oggi il 14% degli italiani ritiene che un regime autoritario in alcune situazioni possa essere una soluzione praticabile e il 20% ritiene che non faccia poi una gran differenza. Gli italiani che ritengono che i partiti politici siano una parte imprescindibile del sistema democratico finiscono in minoranza: ormai il 50% del paese pensa che la democrazia possa funzionare comodamente anche senza i partiti.

È sempre colpa del capo. Sindacati e vigili di Roma fate proprio schifo.

https://www.facebook.com/monica.benacci/posts/10205566509632833

Questi sono tutti gli amici dialoganti di Di Battista. Ma perché non lo mandiamo via dall'Italia uno così ignorante?

Nigeria, 40 ragazzi rapiti da Boko Haram

Il blitz a Malari, un remoto villaggio del nordest del Paese. Il gruppo fondamentalista, noto per i sequestri di massa, costringe i giovani a combattere.
AFP
Combattenti della setta islamista radicale Boko Haram

03/01/2015
Quaranta ragazzi e giovani uomini sono stati rapiti da presunti militanti di Boko Haram in un remoto villaggio del nordest della Nigeria. Un gruppo di uomini armati, sospetti combattenti della setta islamista radicale, è arrivato a Malari alle 20 circa.  

Nessuno ha sparato, non ci sono state vittime. «Hanno portato via 40 giovani, in gran parte di età compresa tra 15 e 23 anni», ha raccontato un testimone, spiegando che nel villaggio non è rimasto nessun ragazzo. «La gente ha cominciato a scappare dalle loro case terrorizzata ma loro non hanno né sparato né ucciso nessuno», ha raccontato uno degli abitanti che è riuscito a fuggire nella città vicina di Maiduguri. 

Boko Haram è noto per i sequestri di massa. Nell’ultimo anno sono diverse centinaia le persone sequestrate dal gruppo fondamentalista di Boko Haram che costringe i ragazzi a combattere e le donne a matrimoni forzati. Il caso più noto è quello delle 200 studentesse rapite da una scuola e di cui si sono perse le tracce. I loro parenti hanno perso la speranza che il governo le ritrovi e salvi, e hanno infine fatto appello per avere aiuto dall’Onu. 

Se ci sono due persone che non possono citare Pertini sono proprio loro. Grillo e Salvini.

Il cognato di Pertini attacca Grillo e Salvini

Pubblicato il 3 gennaio 2015 da Giuseppe Spadaro 
Più e più volte in queste ultime settimane è stata evocata la figura dell’ex Presidente della Repubblica Sandro Pertini. Il suo nome ricorre spesso nelle discussioni sul prossimo inquilino del Colle. Per il Quirinale infatti sia il MoVimento 5 Stelle che la Lega hanno fatto sapere di poter condividere l’indicazione di un Presidente della Repubblica “con un profilo alla Pertini”.
C’è chi non accetta che il nome di Pertini sia tirato in ballo nelle discussioni per il Quirinale come il presidente della Fondazione Pertini e cognato dell’ex presidente della Repubblica Umberto Voltolina. Intervistato dalla Stampa di Torino attacca: “Beppe Grillo e Matteo Salvinisfruttano l’immagine di Pertini in una maniera indecorosa. Penso, per come e quanto lo ho conosciuto, che se Pertini fosse vivo disprezzerebbe quei due personaggi”.
pertini sandro
“Forse disprezzerebbe è troppo, ma non li stimerebbe affatto” si corregge, quindi spiega che Pertini gli illustrò in una lettera “un precetto che è stato al centro della sua vita: il vero uomo politico è quello che ha degli ideali e che li persegue prescindendo dagli interessi di bottega. A me pare che, esattamente al contrario, sia Grillo sia Salvini strumentalizzino tutto, compreso Pertini, per interessi di bottega che prevalgono sugli ideali. Forse perchè di ideali non c’è traccia”.
grillo salvini
Secondo Voltolina, Pertini è così citato perché riempie un vuoto. Non essendoci nessun candidato di autentica statura, si dice che ce ne vorrebbe uno come lui. Ma non c’è”.

Da leggere comunque la pensiate.

Un gran discorso di Mario Cuomo, smontato

Chi vuole sapere chi era Mario Cuomo, il leggendario politico americano che è morto stanotte, può leggere un sacco di cose: le cose essenziali sono nell’articolo del Washington Post che sul Post abbiamo tradotto in italiano. Ma agli appassionati di discorsi politici, retorica e arte oratoria io consiglio di impiegare meno di otto minuti del loro tempo per guardare questa sintesi del discorso più famoso di Mario Cuomo, quello che tenne alla convention dei democratici nel 1984.
Questo discorso è stato considerato quasi un discorso fondativo per la sinistra americana degli ultimi trent’anni, per come ha affrontato e centrato il tema delle diseguaglianze economiche: e di questo si legge molto sui giornali americani di oggi, specie per come quei temi sono tornati attuali con la crisi economica, i movimenti di Occupy, la rielezione di Obama nel 2012; ma questo discorso è considerato un caposaldo anche dal punto di vista tecnico, proprio in quanto discorso, ed è effettivamente retoricamente eccezionale. Il testo integrale si può leggere qui.
Intanto è – salvo alcuni incisi – un discorso centrato su un tema preciso, che evidentemente si considera essere il tema su cui far girare l’intera campagna elettorale: le diseguaglianze. Non c’è nessuna lunga prolusione e soprattutto non c’è la struttura circolare a cui siamo abituati: quella per cui ogni discorso, anche quello che annuncia l’elezione del nuovo segretario di circolo, debba partire dalla crisi dei mutui sub-prime e dalla situazione mediorientale per poi andare a stringere fino ad arrivare alla Garbatella (true story).
Poi: la sintesi del discorso nel video sopra ne raccoglie i passaggi più importanti e praticamente è tutto l’inizio del discorso. Questo per un fatto banale nella sua semplicità, e cioè che l’inizio del discorso è il momento in cui le persone sono più attente e perché l’attenzione di qualsiasi essere umano dopo 20 minuti inizia a scendere. Un buon discorso è il più delle volte un discorso che affronta da più lati e in più modi quasi esclusivamente una sola grande questione e che arriva subito al sodo, alla sua parte migliore, per poi elaborare concetti e argomenti nella parte centrale e riprendere di nuovo il succo nella sua conclusione. Un discorso che annuncia quello che deve annunciare dopo 15 minuti, se non addirittura nella conclusione, è un discorso che poteva essere molto più efficace.
Altra cosa. Il discorso è scritto così bene e Cuomo è così bravo a pronunciarlo che non ha bisogno di ricorrere a uno dei trucchi più usati e abusati dagli oratori per creare pathos e riconquistare o mantenere l’attenzione del pubblico, o per chiamare un applauso: alzare il tono della voce. È una scena che avete presente tutti, immagino: il politico che senza nessun motivo particolare durante un discorso si infervora, diventa paonazzo in volto e inizia a urlare. Nella politica americana il simbolo di questo tipo di discorso è quello che fece Howard Dean su un palco dopo essere arrivato terzo nelle primarie in Iowa. Questo minuto nella politica americana è rimasto famoso come “Dean’s scream” – l’urlo di Dean – ed è considerato una delle ragioni per cui la sua candidatura precipitò di lì a poco.
Un esempio italiano: dal minuto 5:30 e poi dal minuto 6:30 ma soprattutto dal minuto 7:45.
Ora riascoltate il tono di Cuomo, anche nella conclusione. Oppure riascoltate uno dei discorsi più famosi della storia mentre viene pronunciato con la voce più calma e pacata possibile. Se Martin Luther King può parlare di diritti civili e schiavitù e dire “I have a dream” senza urlare, perché non può farlo Epifani mentre parla del governo Letta?
Se un discorso è ben scritto e ben pronunciato, non serve urlare o diventare paonazzi per mantenere l’attenzione del pubblico o emozionarlo o chiamare un applauso. Come insegna tra gli altri proprio “I have a dream”, uno dei metodi migliori per far funzionare un discorso è scriverlo come fosse una canzone: mettere le parole una accanto all’altra facendo attenzione al loro suono, al loro ritmo, e pronunciarle facendo attenzione al loro suono, al loro ritmo. Ascoltate di nuovo il video di Martin Luther King mettendo play al minuto 1:45: non sembra che stia cantando?
Queste sono alcune delle frasi del discorso di Cuomo: fate attenzione ai suoni che si assomigliano, ci sono quasi delle rime. Guardando il video noterete anche le pause, mai casuali.
There are elderly people who tremble in the basements of the houses there. And there are people who sleep in the city streets, in the gutter, where the glitter doesn’t show.
There is despair, Mr. President, in the faces that you don’t see, in the places that you don’t visit in your shining city.
Maybe, maybe, Mr. President, if you visited some more places; maybe if you went to Appalachia where some people still live in sheds; maybe if you went to Lackawanna where thousands of unemployed steel workers wonder why we subsidized foreign steel. Maybe — Maybe, Mr. President, if you stopped in at a shelter in Chicago and spoke to the homeless there; maybe, Mr. President, if you asked a woman who had been denied the help she needed to feed her children because you said you needed the money for a tax break for a millionaire or for a missile we couldn’t afford to use.
That struggle to live with dignity is the real story of the shining city.
Now, it will happen. It will happen if we make it happen; if you and I make it happen.
La penuria di buoni discorsi nella politica italiana – ci sono eh, ci sono: ma sono rari – non è solo una questione estetica, una cosa da nerd della politica: è il sintomo di qualcosa di più grande.
Avete presente il discorso di Pierluigi Bersani all’ultima assemblea del Pd? Vi ricordate che cosa disse Susanna Camusso allo sciopero generale di un anno fa? E Silvio Berlusconi nel suo ultimo discorso da presidente del Consiglio? Ve lo dico io: no che non ve lo ricordate. E questo perché la classe dirigente italiana, benché ami apparire in pubblico, ha un grosso problema con i discorsi.
Si dirà, vista l’aria che tira, che non è un grave problema: che gli italiani sono stanchi di parole, prediche e sermoni e preferirebbero sentire meno discorsi e vedere più azioni, più riforme. L’argomento è malposto, e non solo perché di riforme in questi anni in Italia ne sono state approvate decine, quasi tutte inefficaci, incomplete o tra loro incoerenti, come spiega Marco Simoni nel suo bel libro Senza alibi (Marsilio, 2012). Paradossalmente infatti, proprio vista l’aria che tira, gli italiani avrebbero bisogno di più discorsi politici. Discorsi politici veri, però, alti: coincisi, retorici il giusto, intellettualmente onesti, ricchi di argomenti e dati a sostegno della loro tesi. Anglosassoni, il più possibile.
Un buon discorso politico, infatti, migliora la società: arricchisce di informazioni l’elettorato, gli chiarisce le idee, lo aiuta a farsi un’opinione informata, educa al confronto dialettico civile. Un discorso ben scritto e ben esposto può cambiare la carriera di un politico e la sorte di un movimento. Può essere un mezzo straordinariamente efficace per influenzare il dibattito pubblico e l’agenda politica, per creare consenso attorno a un tema o a se stessi, per generare attenzione duratura da parte dei mezzi di comunicazione, per stimolare la raccolta di fondi a favore di una campagna.
Due tra le persone più potenti del mondo, Barack Obama e David Cameron, hanno cambiato la loro carriera politica grazie a un discorso, passando in pochi anni da essere dei politici semi-sconosciuti a essere leader dei propri Paesi. Ronald Reagan nel 1964 fece un discorso a cui ancora oggi negli Stati Uniti si fa riferimento come a “The Speech”, “Il Discorso”: tre anni dopo si ritrovò governatore della California, il resto lo sapete. Quasi non c’è presidente americano del Novecento di cui non ci si ricordi una frase. Dei politici italiani degli ultimi vent’anni, invece, fuori dalla nicchia degli addetti ai lavori ci si ricorda pochissimi discorsi. Quello di Berlusconi nel 1994, l’Italia-è-il-paese-che-amo, peraltro registrato. Il discorso di Veltroni al Lingotto nel 2007. Stop.
Di norma la classe dirigente italiana preferisce occasioni meno solenni e impegnative per rivolgersi agli elettori, meglio se mediate dai giornalisti: interviste, conferenze stampa, ospitate in tv, convegni con più ospiti. Nelle occasioni potenzialmente solenni – una manifestazione di piazza, un congresso di partito – i politici italiani si limitano al compitino: un lunghissimo sermone dall’invariabile struttura circolare (si parte sempre dalla situazione internazionale, fateci caso, anche per parlare dello sciopero dei tram), qualche slogan, attenzione maniacale a toccare tutti i temi possibili per non deludere nessuno. Persino nelle occasioni obbligatoriamente solenni, come in Parlamento, il politico italiano medio semplicemente non è all’altezza: legge male discorsi fatti per lo più di banalità retoriche e battute da due soldi, spesso pieni di errori grammaticali.
Esiste poi, soprattutto a sinistra, una qualche resistenza rispetto all’idea di farsi aiutare da professionisti. Che non vuol dire farsi scrivere un discorso da un’agenzia pubblicitaria sulla base dei risultati dei sondaggi ma ricorrere all’aiuto di persone competenti per mettere per iscritto i concetti nel modo più efficace possibile, trovando le metafore giuste, le pause giuste, le parole giuste. Siamo arrivati quindi a quello che forse, in fondo, è l’ostacolo fondamentale, il punto ineludibile, banale come sono solo certe cose vere: per essere in grado di fare un bel discorso, uno di quelli che passano alla Storia, bisogna avere qualcosa di importante da dire.
P. S. : Un’ultima cosa, di nuovo su Cuomo: era figlio di immigrati italiani arrivati da Salerno. Un immigrato di seconda generazione, tecnicamente. E divenne un leader politico nazionale e un potenziale presidente degli Stati Uniti. Immaginate un politico italiano figlio di tunisini e con nome tunisino che arringhi le folle parlando di “noi italiani”. Ecco: tra tante cose che non vanno, questo è un pezzo della grandezza dell’America.

Marino è una persona perbene ecco perché non può governare Roma. I cittadini romani vogliono sindaci intrallazzoni.

Vigili assenti Roma, il sindaco Ignazio Marino: "Ora pene esemplari, non escludo licenziamenti" (FOTO)

Pubblicato: Aggiornato: 
MARINO LICENZIAMENTI VIGILI ROMAto
Pene esemplari, sanzioni severe, altamente severe. E non esclude il ricorso ai licenziamenti. Il sindaco di Roma promette di usare la mano pesante dopo il caso di assenteismo diffuso tra i vigili urbani della Capitale durante la notte di Capodanno. In un'intervista a Repubblica, Marino sostiene che "umilia chi lavora il fatto che un certo numero di persone abbia voluto fare un atto così ingiusto e lesivo per la città. uno sberleffo che non si possono permettere". Lo dice - intervistato da Repubblica - il sindacato della Capitale, Ignazio Marino, commentando le assenze dei vigili di Roma: "Sono rimasto molto male" perchè "in un momento di grave crisi economica e morale", il Capodanno in piazza "era un evento a cui lavoravamo da tempo. Avevo chiesto a tutti di fare la propria parte" e invece c'è stata "una ritorsione".
Dopo l'inchiesta disposta sul "desiderio di donazione di sangue nella notte di Capodanno" e sull'"improvvisa epidemia", il sindaco promette che "verranno prese le sanzioni che la legge consente. Saranno giuste, ma altamente severe". Fino ai licenziamenti? "Lo potremo dire dopo che sarà completato il lavoro di indagine del comandante Clemente e degli uffici. Io credo che vadano dati segnali esemplari", risponde.
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La pedalata assistita di Marino
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LAPRESSE
Quanto alle ragioni della protesta, secondo Marino, "di certo quanto accaduto dipende anche dal fatto che ho voluto riscrivere il contratto decentrato e il salario accessorio per i dipendenti del Comune. Prima, ad esempio, c'era un'indennità notturna che per la polizia locale partiva dalle 16 dei giorni feriali: inaccettabile. Ho cancellato questi privilegi" e ad "alcuni questo metodo non è piaciuto". "Hanno tradito il Corpo, il Comune e i romani", aggiunge.
Il sindaco Marino trova l'appoggio anche del commissario del Partito democratico Matteo Orfini: "L'idea che si possa fare uno sciopero selvaggio contro una misura sacrosanta", che "limita i rischi di corruzione", come la rotazione e "solo perchè devono fare qualche chilometro in più per andare a lavorare ha, semplicemente, dell'incredibile". Per il presidente del Pd, intervistato dal Corriere della Sera, "bene hanno fatto il presidente Matteo Renzi, il ministro Marianna Madia e il sindaco Ignazio Marino ad annunciare provvedimenti. Vadano fino in fondo".
"Il punto è che, a Roma, serve un salto di qualità: bisogna ricostruirla, portarla di nuovo all'altezza del ruolo di Capitale. Da molti punti di vista, anche quello etico", dice riferendosi anche all'inchiesta su Mafia Capitale. "Il Paese non riuscirà a uscire dalla crisi se non si salva Roma, e viceversa. Bisogna agire tutti assieme", afferma. Quindi ammette che mettendosi di traverso al sindaco Marino "il partito romano ha sbagliato: siamo il più grande partito della maggioranza e sembravamo all'opposizione. Adesso anche Marino, insieme con noi, ha di fronte questa sfida da affrontare: è altissima, difficile, ma è anche un'occasione...".

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