sabato 20 settembre 2014

Il problema non è che questa sinistra vive fuori dal mondo. Il problema è che vivono solo nel loro mondo, insieme ai sindacati. E il loro mondo sono la difesa dei distacchi sindacali, delle tessere sindacali e degli interessi dei pensionati che sono il 60% ormai dei ogni sindacato confederale. E i sindacati autonomi sono anche peggio.

I giovani vogliono il lavoro, non l’articolo 18

La foto di di Antonio Del Giudice

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ROMA - Talvolta viene il sospetto che una certa sinistra viva fuori dal mondo. Sospetto che non viene da oggi. Come se il mondo fosse sempre lo stesso. L’eterna battaglia sull’articolo 18 si conferma il Capo di Buona speranza dei marosi e delle tempeste, come quelli che fermavano le caravelle spagnole e portoghesi dirette in India e in Cina tre secoli fa. La sinistra assoluta è rimasta a difendere il tabù dell’intoccabilità dei lavoratori, come quando c’era la piena occupazione e i diritti furono fissati con mastice dallo Statuto dei lavoratori. C’erano allora guerre ideologiche e discriminazioni nelle fabbriche, c’era la lotta di classe guidata da Partito comunista e dalla CGIL socialcomunista. C’erano ragioni, più o meno condivise, per quelle misure ferree. E poi il posto di lavoro era a vita, come le fabbriche e l’impiego di Stato. Preistoria, ormai.
Oggi, con la disoccupazione ai massimi storici, i giovani cercano un lavoro. I più ambiziosi e preparati ne cercano uno che li ricompensi dei sacrifici fatti. Gli altri cercano un lavoro per cominciare a non dipendere più da mamma e papà, che magari vivono della loro pensioncina e fanno fatica a mantenerli. All’articolo 18 (si accettano scommesse) nessuno che abbia meno di trent’anni pensa come una conditio sine qua non.
Queste considerazioni derivano dall’esperienza quotidiana. Chi ha voglia di lavorare è pronto a lasciare l’Italia e a varcare gli oceani fino all’Australia; non si pone il problema del lavoro acquisito una volta per sempre, e guai a chi me lo tocca. I ragazzi si aspettano una vita decente, con questi chiari di luna, con una sola garanzia che si chiama lavoro. Poi sono pronti a cambiare, a sperimentare nuove avventure, e a cercare la polpa dove c’è. Non ad acchiappare il malloppo una volta per sempre.
Altro è parlare di diritti basilari, come salario e assicurazioni, altro è pretendere oggi l’inamovibilità e l’eternità del posto. La catastrofe occupazionale delle aziende che hanno chiuso in questi ultimi tre anni è stata forse scongiurata dall’articolo 18? Non pare proprio. Allora forse è arrivato il momento di guardare in faccia alla realtà. Garanzie si, anche per tagliare le unghie ai padroncini del vapore, utopie no. Anche perché non è questo che chiedono le nuove generazioni e i nostri figli.

Certo viviamo un mondo più scomodo del passato. Ma la colpa non è di nessuno, o meglio la colpa è di tutti. Ma adesso questo è il mondo che ci tocca. Hic Rodus, hic saltus. Sarà il caso di farsene una ragione.
Inviato da iPad.

Vai Matteo. Cambiamo questo paese.

Matteo Renzi attacca la minoranza del Partito democratico: "C'è chi vuole tornare al 25%"

Pubblicato: Aggiornato: 
"A me hanno insegnato che essere di sinistra significa combattere un'ingiustizia, non conservarla. C'è chi trova soluzioni provando a cambiare e chi organizza convegni lasciando le cose come sono. Anche nel Pd c'è chi vuole cogliere la palla al balzo per tornare agli scontri ideologici e magari riportare il Pd del 25%. Noi no". 
Così Matteo Renzi scrive in una lettera pubblicata nel sito del Partito democratico, nella quale non solo attacca con particolare lena la minoranza interna, molto critica sulla riforma del lavoro, ma annuncia che lo stesso Jobs act sarà presentato in direzione tra pochi giorni, il 29 settembre.
"Dobbiamo attirare nuovi investimenti, perché senza nuovi investimenti non ci saranno posti di lavoro e aumenteranno i disoccupati", scrive inoltre il premier. Poi torna a criticare pesantemente chi non è d'accordo con la sua linea: "Noi siamo qui per cambiare
L'italia e non accetteremo mai di fare le foglie di fico alla vecchia guardia che a volte ritorna. O almeno ci prova".
Ecco il testo integrale della lettera:
Carissime democratiche, carissimi democratici, 
mentre volgono al termine le tante Feste dell'Unità svoltesi in tutta Italia, invio questa email innanzitutto per ringraziarvi dell'impegno sul territorio, della passione, della dedizione con cui state aiutando il PD in queste ore così delicate. 
Già, perché il risultato del 25 maggio – con quello squillante 40,8% – impone a tutti noi di essere all'altezza di una grande responsabilità: ridare fiducia all'Italia e agli italiani. Tocca a noi, nessuno si senta escluso. 
L'Italia sta cambiando molto. Dalle riforme istituzionali e costituzionali fino alla giustizia, passando per il terzo settore e la politica estera, dove il successo della nomina di Federica Mogherini costituisce un motivo di orgoglio e speranza per ciascuno di noi. In questi mesi stiamo lavorando moltissimo. E ormai siamo al momento finale di discussioni che pure erano state bloccate per anni come quella su una legge elettorale in grado di assicurare un vincitore certo o la riforma costituzionale che sono già alla seconda lettura e che dovranno essere affrontate senza indugio dal parlamento in queste settimane. Perché se la politica cambia se stessa e dà il buon esempio, poi, tutto è più semplice. 
Tra le prossime sfide segnalo in modo particolare: 
La scuola. Perché solo dando valore e dignità all'impegno degli insegnanti e alle aspettative delle famiglie riusciremo a risollevare l'Italia. Qui trovate il link del progetto del Governo. Vi prego di leggerlo, di discuterlo nei circoli, a scuola, in ufficio. La riforma della scuola non può essere la solita legge calata dall'alto. Abbiamo due mesi per discuterne ovunque, non perdiamo questa occasione. Coinvolgendo mamme e figli, prof e custodi, nonni e assessori. 
Il lavoro. Il 29 settembre presenterò in direzione nazionale il JobsAct. Dobbiamo attirare nuovi investimenti, perché senza nuovi investimenti non ci saranno posti di lavoro e aumenteranno i disoccupati. Ma dobbiamo anche cambiare un sistema ingiusto che divide i cittadini in persone di serie A e di serie B e umilia i precari. Chi oggi difende il sistema vigente difende un modello di diseguaglianze dove i diritti dipendono dalla provenienza o dall'età. Noi vogliamo difendere i diritti di chi non ha diritti. Quelli di cui nessuno si è occupato fino ad oggi. 
Il fisco. Abbiamo iniziato a ridurre la pressione fiscale restituendo 80 euro a undici milioni di italiani e diminuendo l'odiosa Irap del 10% per le aziende perché ancora oggi in Italia il costo del lavoro è troppo alto. Per colpa mia, peraltro, non siamo riusciti a comunicare bene il taglio del 10% dell'Irap che è già avvenuto, ma di cui non parla nessuno. Il fisco deve essere meno caro, certo. Ma anche più semplice. Per questo nell'ambito del programma dei mille giorni, partendo già dal prossimo anno, introdurremo innanzitutto la dichiarazione dei redditi precompilata. 
Bloccare l'emorragia dei posti di lavoro e tornare a crescere, semplificare il fisco pagando meno (ma pagando tutti, finalmente!) e, prima di tutto, investire sull'educazione e sulla scuola: questa è la nostra sfida. Ci hanno detto che siamo di destra per questo. Ci hanno paragonato ai leader della destra liberista anglosassone degli anni Ottanta.
A me hanno insegnato che essere di sinistra significa combattere un'ingiustizia, non conservarla. Davanti a un problema c'è chi trova soluzioni provando a cambiare e chi organizza convegni lasciando le cose come sono. Anche nel nostro partito c'è chi vuole cogliere la palla al balzo per tornare agli scontri ideologici e magari riportare il PD del 25%. Noi no. 
Noi siamo qui per cambiare l'Italia e non accetteremo mai di fare le foglie di fico alla vecchia guardia che a volte ritorna. O almeno ci prova.
Sul sito trovate l'indicazione della nuova segreteria. Chi può ci dia una mano, partendo dalle iniziative per le imminenti regionali e per le forme di autofinanziamento. Abbiamo la grande occasione di cambiare il paese più bello del mondo: Aiutiamoci a farlo sul serio.

Forse dovremmo riflettere su questi dati. Occorre riflettere sulla didattica che proponiamo agli alunni. Imparare anche dall'estero. Certamente la lezione frontale e i compiti a casa non sono l'unica didattica. Anzi, questa didattica fa ridere tutti i paesi meglio classificati nelle classifiche OCSE.

Il tallone d’Achille della scuola: gli abbandoni

Quasi tre milioni di ragazzi italiani negli ultimi 15 anni hanno rinunciato al diploma

Flickr/HoboElvis

     
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Quasi tre milioni di ragazzi italiani negli ultimi 15 anni. Il 31,9% di coloro che dopo la terza media si sono iscritti alla scuola superiore non arriva al diploma e non termina quindi gli studi. Uno dei mali della nostra istruzione ha un nome preciso e si chiama dispersione scolastica, di cui il governo Renzi dovrà necessariamente tener conto nella sua riforma della “scuola buona”. E non solo.
L’emergenza c’è tutta. Il 23 aprile 2014 Giovanni Vinciguerra, direttore di Tuttoscuola, ha presentato i dati in occasione dell’audizione sul tema della dispersione scolastica in Commissione Cultura, scienza e istruzione della Camera e a luglio la rivista ha pubblicato un dossier allarmante
Solo negli ultimi cinque anni gli studenti dispersi sono stati 167mila, con picchi di dispersione del 35% nelle isole e del 41,7% nella provincia di Caltanissetta. Il 37% della dispersione è concentrata negli istituti professionali, la metà molla già dopo il primo biennio. Più di un quarto (il 27,9%) di quelli che hanno iniziato un percorso di studi secondari nella scuola statale nell’anno scolastico 2009-2010 non lo ha completato. Che significa, in soldoni: 500 milioni di euro di docenza sprecata per gli studenti dispersi.
Una classe di liceo

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Senza contare, poi, che dispersione fa rima con disoccupazione. Se il 28 per cento di chi raggiunge il diploma resta ancora senza occupazione, tra quelli che possiedono solo la licenza media la percentuale sale al 45 per cento. Questi ragazzi finiscono nel bacino dei Neet, i ragazzi tra i 15 e i 29 anni che non studiano, non hanno un lavoro e neppure si formano per trovarlo. Secondo l’Istat, sono 2,2 milioni, pari al 23,9% di questa fascia d’età. E ogni anno, secondo Confindustria, hanno un costo sociale di 32,6 miliardi di euro. Se questi giovani inattivi entrassero nel sistema produttivo nazionale, si guadagnerebbero più di 2 punti di Pil.
dispersione confronto europeo
«Sono cifre “da guerra mondiale”», si legge nel rapporto di Tuttoscuola. «È una shoah sociale, un’emorragia che ogni anno indebolisce il corpo sociale del Paese e ne riduce la capacità di competere come sistema nazionale».
In Italia la quota di Neet è di molto superiore a quella della media europea (15,4 per cento). E va dall’11,6% della provincia di Bolzano al 37,7% della Sicilia. In Germania si ferma al 9,7 per cento, in Francia al 14,5 per cento, nel Regno Unito al 15,5 per cento. 
La fotografia peggiora se si considerano i ragazzi a rischio dispersione. Secondo la Fondazione Exodus di don Antonio Mazzi, il 63,1% dei ragazzi di età compresa fra i 16 e i 18 anni è a rischio abbandono scolastico. La percentuale rimane alta anche nella fascia d’età fra i 14 e i 16 anni, dove i ragazzi che rischiano di abbandonare i banchi di scuola sono il 49,8%, mentre per gli under 14 si scende al 17,8 per cento. Spesso, spiegano dalla fondazione, la dispersione scolastica si associa anche a comportamenti antisociali, come l’uso di stupefacenti (30%), violazione delle norme sociali (40%), litigiosità e bullismo (65%).
Ma i dispersi che fine fanno? Una parte di loro tenta la sorte in qualche istituto non statale, circa 25-30mila all’anno. Altri 35-40mila migrano dalla scuola verso corsi di formazione professionale. Ma la maggioranza, circa 110-120mila, non ha continuato alcun percorso formativo e risultano effettivamente dispersi.
Tra le regioni è l’Umbria con un tasso di dispersione del 18,2% ad avere la situazione migliore, seguita da Marche e Molise con il 21,1 per cento. La situazione peggiore è quella della Sardegna (36,2%), seguita dalla Sicilia (35,2%) e dalla Campania, con un tasso di dispersione del 31,6 per cento. Le regioni del Nord Ovest, in una situazione piuttosto omogenea, sono tutte sopra la media nazionale, con la Lombardia che sfiora il 30 per cento. 
Una delle ragioni dell’abbandono sono le bocciature. Da un anno all’altro, una media di 40mila studenti abbandona la scuola statale, quasi sempre a seguito di una bocciatura. Ma a volte i motivi possono essere legati, come accade (o accadeva) nel Nord Ovest d’Italia, alla facilità di accesso al lavoro (quello manuale e saltuario) per conseguire una minima autonomia economica. Nelle zone di maggiore emergenza sociale, invece, il lavoro che attrae i minori non è soltanto quello facile che non chiede competenze o specializzazioni, ma è anche quello in nero o illegale. «Occorre dunque rendere più attrattiva l’offerta di istruzione e rendere prevalenti le ragioni per continuare a studiare rispetto a quelle che spingono molti giovani a smettere», si legge nel rapporto di Tuttoscuola. «Va combattuta, in particolare, la convinzione, più diffusa nei territori dove la crisi economica e quella socio-culturale si sommano, che la scuola non serva, che sia una perdita di tempo e che non apra prospettive di vita o di occupazione». 

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La maggiore concentrazione di alunni che abbandonano, spiegano dal Miur (Ministero istruzione, università e ricerca), si registra negli istituti professionali, negli istituti tecnici e nell’area dell’istruzione artistica. Dati che però potrebbero essere meno consistenti se si considera che una parte (più o meno consistente nelle varie realtà territoriali) dei ragazzi potrebbe essere transitata nel sistema regionale di istruzione e formazione professionale senza averne dato comunicazione alla scuola. A febbraio, il governo Letta con il ministro Maria Chiara Carrozza ha annunciato di aver stanziato 15 milioni di euro per le attività integrative e pomeridiane contro l’abbandono scolastico.
Nel 2010 la Commissione Europea ha presentato una nuova strategia - Europa 2020: una strategia per una crescita intelligente, sostenibile e inclusiva - che consentirà all’Unione europea di raggiungere una crescita intelligente (attraverso lo sviluppo delle conoscenze e dell’innovazione), sostenibile (basata su un’economia più verde, più efficiente nella gestione delle risorse e più competitiva) e inclusiva (volta a promuovere l’occupazione, la coesione sociale e territoriale). La Commissione europea ha proposto una serie di obiettivi precisi da raggiungere entro il 2020: il tasso di abbandono scolastico deve diminuire a meno del 10% e il tasso dei giovani laureati salire sopra il 40 per cento. Sul tasso di laureati, gli ultimi dati hanno consegnato all’Italia la maglia nera d’Europa con una percentuale del 22,4 per cento. Sul fronte della dispersione scolastica, va detto che negli ultimi anni è diminuita. Ma siamo ancora molto lontani dagli obiettivi europei. 
dispersione

Basta con i ferri vecchi del PD che usano i ferri vecchi della CGIL per fare le scarpe a Renzi. Ricambio totale anche nel sindacato. Cambiare i vertici con nuova generazione.

Lavoro, Renzi torna rottamatore e attacca la "vecchia guardia"

Lettera ai militanti del Pd: "Hanno detto che siamo di destra, ma mi hanno insegnato che essere di sinistra significa combattere un'ingiustizia, non conservarla"

Matteo Renzi
Dopo il video, la lettera. Matteo Renzi è ragazzo sveglio. E ha subito capito che la battaglia sul lavoro, ancor prima che una battaglia decisiva per il futuro del Paese, può diventare decisiva per lui. Per mostrare all'Italia che, se ancora ce ne fosse bisogno, è lui la novità. L'unico capace di scardinare le vecchie logiche che hanno bloccato l'Italia in questi anni. Così prende carta e penna, indossa nuovamente la casacca del rottamatore, è scrive ai militanti del Pd.
Una lettera che serve anzitutto per ringraziarli "dell'impegno sul territorio, della passione, della dedizione con cui state aiutando il Pd in queste ore così delicate". Quindi l'appello a rimboccarsi le maniche assumendosi la responsabilità di "ridare fiducia all'Italia e agli italiani".
"L'Italia sta cambiando molto - prosegue -. Dalle riforme istituzionali e costituzionali fino alla giustizia, passando per il terzo settore e la politica estera, dove il successo della nomina di Federica Mogherini costituisce un motivo di orgoglio e speranza per ciascuno di noi. In questi mesi stiamo lavorando moltissimo. E ormai siamo al momento finale di discussioni che pure erano state bloccate per anni come quella su una legge elettorale in grado di assicurare un vincitore certo o la riforma costituzionale che sono già alla seconda lettura e che dovranno essere affrontate senza indugio dal Parlamento in queste settimane. Perché se la politica cambia se stessa e dà il buon esempio, poi, tutto è più semplice".
Il percorso è già fissato con tre priorità: scuola, lavoro e fisco. Ma è soprattutto sulla seconda che si concentra l'attenzione del premier. Non fosse altro perché, proprio in questi giorni, è diventata l'occasione di uno scontro acceso con la Cgil. Renzi sa che attaccare il sindacato, soprattutto dalle sue parti, può risultare impopolare. Ma sa anche che gli permette di raccogliere molti consensi all'esterno del perimetro del partito. Soprattutto se la battaglia vede lui contrapposto a Camusso, Bersani, D'Alema ecc.
In fondo è stato proprio sulla contrapposizione con i vecchi volti della sinistra che Renzi ha costruito il proprio successo. Così il premier, costretto a fronteggiare un preoccupante calo della fiducia degli italiani, riparte proprio da lì. " Bloccare l'emorragia dei posti di lavoro e tornare a crescere - prosegue -, semplificare il fisco pagando meno (ma pagando tutti, finalmente!) e, prima di tutto, investire sull'educazione e sulla scuola: questa è la nostra sfida. Ci hanno detto che siamo di destra per questo. Ci hanno paragonato ai leader della destra liberista anglosassone degli anni Ottanta. A me hanno insegnato che essere di sinistra significa combattere un'ingiustizia, non conservarla. Davanti a un problema c'è chi trova soluzioni provando a cambiare e chi organizza convegni lasciando le cose come sono. Anche nel nostro partito c'è chi vuole cogliere la palla al balzo per tornare agli scontri ideologici e magari riportare il PD del 25%. Noi no".
"Noi siamo qui per cambiare l'Italia  - conclude - e non accetteremo mai di fare le foglie di fico alla vecchia guardia che a volte ritorna. O almeno ci prova". La sfida è lanciataò.
Redazione online

Un articolo divertente da leggere.


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INTERVISTA

'Il mio Frank, politico cinico e senza ideologie"
A lezione da House of Cards con Kevin Spacey

Spietato, ripugnante, diabolico. Che però le cose le fa. E colpisce il pubblico stanco di un parlamento paralizzato. Per il grande attore americano, questo è il segreto della serie cult. Che torna 
in tv. E che a qualcuno ricorda Renzi... 

DI LORENZO SORIA
'Il mio Frank, politico cinico e senza ideologie 
A lezione da House of Cards con Kevin Spacey
Perché un politico spietato come Frank Underwood piace tanto? «Perché è uno che le cose le fa. Non ha ideologia, non è legato a un partito o a qualcuno o a qualcosa, è uno che vede un’opportunità e ci si butta. Ed è diabolico». Kevin Spacey ha pochi dubbi sulle motivazioni che hanno trasformato il protagonista di “House of Cards” in una figura di culto. Tra i fan ci sono alcuni degli uomini più potenti del pianeta. Come Barack Obama, che quando a causa degli impegni alla Casa Bianca non ha potuto seguire in diretta il lancio della seconda serie ha twittato: «Non rovinatemelo». O da noi Matteo Renzi, che ha spronato la direzione del Pd a studiare la fiction come manuale di formazione politica:«Lo so che qualcuno si metterà le mani nei capelli, ma anche imparare da un racconto è importante». Dalla leggendaria scuola delle Frattocchie, dove per decenni sono stati educati i quadri comunisti, a una serie tv dominata dal cinismo di un parlamentare americano, che a sua volta si ispira a un altro illustre fiorentino, Niccolò Machiavelli. Il gioco di specchi nei modelli illustri potrebbe andare ancora più a fondo, perché la sceneggiatura si basa sul best seller di Michael Dobbs, uno dei consiglieri di Margaret Thatcher, altra statista spesso citata come riferimento del premier. Che come il personaggio di Kevin Spacey è passato dal controllo dei democrat al vertice del governo.

VEDI ANCHE:

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Decalogo per gli Underwood italiani

Da 'La democrazia è sopravvalutata' a 'La regola è cacciare o essere cacciati', dieci frasi della serie cult che mostrano strane analogie comportamentali con la nostra politica

Il primo capitolo si è chiuso con Underwood a un passo dalla nomina a vicepresidente degli Stati Uniti. Martedì 23 settembre la seconda stagione della serie tv è in onda anche in Italia in esclusiva su Sky Atlantic e disponibile anche su Sky Online. Negli States è stata trasmessa dalla mezzanotte di San Valentino, con lo spettacolo della lotta di potere che ha preso il posto delle commedie romantiche. Una meditazione sull’immoralità della politica non è stata la scelta più ovvia per celebrare la festa degli innamorati. Ma la forza della sceneggiatura sta anche nella capacità di narrare sentimenti a trecentosessanta gradi.
Dal 23 settembre in esclusiva su Sky Atlantic la seconda stagione, della serie di culto diretta da David Fincher e interpretata da Kevin Spacey e Robin Wright. Segreti e manovre alla Casa Bianca raccontati dallo sguardo spietato di Frank Underwood e la moglie Claire

Oltre agli intrighi e le menzogne e i ricatti, Frank Underwood ama a suo modo pure sua moglie Claire: l’attrice Robin Wright, l’eterea Jenny di “Forrest Gump“ che qui è una moderna Lady Macbeth priva di scrupoli quanto e forse più di lui. «Con me non ti annoierai mai», le dice quando le propone di sposarlo. E devono averla pensata così anche milioni di americani che hanno trascorso San Valentino scaricando i 13 nuovi episodi da Netflix, l’astro nascente di un modo rivoluzionario di fare televisione che proprio con questa serie si è imposta nella produzione.

Ma “House of Cards” è soprattutto lo   show di Kevin Spacey, un sociopatico manipolatore che non distrugge i suoi nemici ma li conduce all’autodistruzione. Due Oscar, uno per “I soliti sospetti” e l’altro per “American Beauty”, Spacey dal 2003 risiede principalmente a Londra dove ha preso la direzione del Old Vic. Tra le rappresentazioni di maggiore successo alla guida dello storico teatro londinese c’è un ”Riccardo III” che ha convertito anche i più scettici dei suoi critici britannici. E come il tiranno shakespeariano, anche il suo potente e cinico deputato spesso si rivolge direttamente al pubblico spiegando con sguardo complice il suo ultimo e ignobile complotto. O commentando con parole pungenti l’ingenuità dell’ultima delle sue vittime.
Come altri grandi personaggi del cinema e della televisione, il suo Francis è ripugnante. E allo stesso tempo ipnotizza la platea e attrae da morire. Perché?
«Perché è uno che le cose le fa. Non ha ideologia, non è legato a un partito o a qualcuno o a qualcosa, è uno che vede un’opportunità e ci si butta. È diabolico e si va sempre a mettere in situazioni drammatiche e inaspettate. Ma siamo in un periodo in cui stiamo rivalutando alcune figure politiche che ai loro tempi ci erano sembrate diaboliche. Dei bastardi come Lyndon Johnson (il presidente che ordinò l’escalation in Vietnam ndr), per esempio, di cui Francis tiene appesi ai muri vari ritratti. La gente pensa aJohnson e dice: beh, era un manipolatore ed ha fatto cose tremende ma almeno era un politico efficace. Con lui le cose si muovevano e questa è una domanda che molti spettatori sono costretti a porsi: che cosa fai quando hai davanti un politico che varca dei confini che non dovrebbe ma che è tremendamente efficace? Nel nostro mondo reale e nel nostro parlamento reale ci sono solo lo stallo e la paralisi, non sembrano capaci di fare niente. Ed è probabilmente molto interessante per gli spettatori vedere un parlamento dove invece le cose si muovono. Può essere solo una fantasia!»


Che cosa ci dice il successo di “House of Cards”? E di show come “Scandal” o “Boss” che si inoltrano con la fiction nel lato oscuro del potere al massimo livello. Ci si può leggere qualcosa sull’umore e i sentimenti del Paese?
«Non lo so, forse gli spettatori sono così frustrati dalla politica e dalla paralisi e dalla mancanza di progresso che ora sono più disposti ad accettare un’idea di democrazia tutt’altro che ideale, alla “The West Wing”(una serie liberal di fine anni Novanta sulla Casa Bianca ndr). Mi piaceva molto “The West Wing” ed è bello pensare che la democrazia può esere gestita in quel modo. Ma alla fine queste sono solo delle fantasie. Ed è sempre difficile cercare di spiegare perchè qualcosa funziona e il pubblico risponde. Il casting, la sceneggiatura,  il montaggio, chi lo sa. A noi è andata bene, abbiamo trovato il nostro pubblico»

Quanto bene conosce il mondo della politica?  Pensa di capirlo?
«Mi interesso di politica e ci gravito attorno sin da quando ero al liceo. Ho messo lettere dentro le buste per Jimmy Carter quando si è candidato alla presidenza nel 1976. Ho lavorato per Ted Kennedy nel 1980. Ho fatto un bel po’ di lavoro per il presidente Clinton prima, durante e dopo gli anni a Washington. Alla Casa Bianca ci sono stato spesso, come alla Camera e al Senato. Ho partecipato a molti eventi non da spettatore ma da maestro di cerimonie. Posso dire di avere visto molto della politica. Ma sono anche uno che ha fatto un sacco di teatro e un sacco di Shakespeare e l’avere fatto il Riccardo III prima di “House of Cards” mi ha dato la possibilità di conoscere bene il personaggio su cui Francis è stato fondato. Quindi questo mio personaggio lo conosco bene, ma una delle cose più belle dell’essere parte di questa serie è tutto ciò che invece non so e non conosco. Non arrivo al lavoro ogni giorno dicendo: oh, Francis lo conosco. No, arrivo e ogni giorno scopro cose nuove, perché il mio è un personaggio che evolve e un’esperienza creativa. Ed è eccitante, perché abbiamo solo una vaga idea di dove andiamo e della traiettoria che seguiremo e ogni giorno è una sorpresa».

Tra gli elementi che distinguono questo da altri show c’è che non avete mai fatto il tradizionale episodio-pilota e che Netflix vi ha commissionato sin da subito due stagioni.
«E questo è stato determinante, perchè quando fai l’episodio-pilota sei costretto a mettere dentro i primi 45 minuti tutti i personaggi e a creare dei momenti di suspense arbitrari e quello non è necessariamente il processo naturale che avresti seguito per presentare la tua storia. Invece siamo stati in grado di evolvere in modo naturale, di introdurre i  nuovi personaggi al momento giusto. E con due stagioni e 26 episodi o, come li chiamiamo noi capitoli, assicurati è cambiato tutto. È cambiata l’evoluzione della storia, lo sviluppo delle relazioni, lo spazio dato ai vari eventi. È stato come fare un lungo film, e come poi lo abbiamo distribuito non conta granché, perché la cinepresa non sa se alla fine le cose finiscono in streaming o in Rete o in un cinema. È solo una cinepresa».

Però negli States lo avete distribuito come appunto un lungo film, tredici episodi uno dopo l’altro, dando vita al fenomeno del “binge-watching”: un’abbuffata ininterrotta di puntate per ore.
«Quello non lo abbiamo inventato noi, il binge-watching è iniziato con i cofanetti di Dvd. Ma è vero che siamo stati la prima serie con questo tipo di distribuzione, una decisione alquanto coraggiosa. E in linea con ciò che il pubblico richiede. Penso che rispondendo alla richiesta dei suoi spettatori Netflix sia stato molto moderno e progressivo, che abbia capito che ciò che la gente vuole è il controllo. I telespettatori non vogliono più sentirsi dire che questa cosa la devono per forza vedere martedì alle otto, perché le loro vite sono molto complicate e hanno la famiglia e il lavoro e sembrano apprezzare il fatto che se questo è ciò che vogliono possono guardarsi l’intera stagione di una serie nel corso di un weekend. Chissà, forse Netflix ha capito la lezione che l’industria musicale invece non ha imparato e cioè che devi dare alla gente ciò che vuole, quando lo vuole nella forma che vuole e a un prezzo ragionevole. E che se fai così è più probabile la gente compri invece di rubare, che si riesca anche a combattere il fenomeno della pirateria».

Mr. Spacey,  il suo è un volto popolare e riconoscibile da due decenni. Adesso è nei salotti della gente. Che cosa cambia?
«Ho una vita straordinaria, lavoro con persone che ammiro in ambienti molto creativi. E in nessuna maniera ho mai sentito che la serie televisiva ha invaso o limitato la mia vita, è stata solo un piacere. Se la gente mi ferma per la strada perlopiù è molto gentile e vuole parlarmi dei miei personaggi. Li chiama per nome, come se fossero reali per loro. E questa è la soddisfazione più grande che puoi avere come attore: che tra le tue tante performances - e so bene che ce ne sono state tante da buttare- sono stato in grado di avere fatto abbastanza film e abbastanza lavori che reggeranno al test del tempo, che ci sono dei personaggi che ho creato che stando ai miei spettatori hanno assunto una loro vita. E questa è una cosa che apprezzo davvero».

Pensa sarebbe un buon politico? Si vede un giorno nelle vesti di Onorevole o Presidente Spacey?
«Non potrei essere un buon politico perché sono uno cui piace fare le cose. E non potrei mai esercitare una professione dove sai già in partenza che non potrai avere successo e che sarai frustrato ogni singolo giorno della tua vita, non ha senso. E dove il poter raggiungere un obiettivo dipende da 218 altre persone (218 è il numero di voti necessari per avere la maggioranza nella Camera Usa, ndr). Sarebbe impossibile per me, non so come fanno. Con questo non voglio dire che non ammiro chi si dà al servizio pubblico. Ammiro i politici efficaci e ce ne sono. Ma non sono interessato a condurre quella vita, solo a rappresentarla».

Le capita mai come a Francis Underwood di volersi vendicare?
 «Credo nel Karma e credo che se qualcuno mi fa un torto verrà investito da un camion. Ma non mi troverete mai al volante!».

dipocheparole     venerdì 27 ottobre 2017 20:42  82 Facebook Twitter Google Filippo Nogarin indagato e...